Sotto la spinta dell’amministrazione Biden, i paesi del G7 hanno raggiunto un accordo storico per fissare un’imposta minima mondiale sui profitti delle multinazionali. Il compromesso al ribasso su un’aliquota effettiva di «almeno il 15 cento» è purtroppo un’occasione persa per i leader dell’Unione europea e in particolare per l’Italia.

L’accordo è fondamentale perché colpisce alla radice la ragione dell’esistenza dei paradisi fiscali: una multinazionale italiana che sposta i profitti in Irlanda per sfruttare un’imposizione effettiva al 12,5 per cento dovrà comunque pagare la differenza tra il 12,5 per cento e il 15 per cento in Italia. Inoltre, una piccola parte dei profitti delle multinazionali più grandi e profittevoli al mondo, in particolare i colossi digitali, saranno ripartiti tra i Paesi in base a dove è realizzato il fatturato.

Il cambio di rotta è radicale se si pensa che negli ultimi decenni uno dei mantra di politica economica era tagliare le imposte alle imprese nella falsa credenza che così si sarebbero stimolati i loro investimenti e la crescita economica. Falsa perché non corroborata dai dati, anzi, in un lavoro recente, Gechert e Heimberger mostrano che non c’è alcuna evidenza empirica che tagliare le imposte alle imprese aumenti la crescita economica.

Tuttavia, l’accordo è una mezza vittoria se si considera che per l’ICRICT, la commissione che riunisce economisti con Stiglitz, Piketty, Ocampo e Gosh, l’aliquota minima doveva essere del 25 per cento, mentre gli Stati Uniti avevano proposto il 21 per cento.

Purtroppo, la resistenza del Regno Unito e la solita inerzia dei Paesi dell’Unione Europea hanno portato ad un’aliquota di “almeno il 15 per cento”, con una consistente perdita di gettito fiscale. Infatti, secondo i calcoli dell’EU Tax Observatory, l’Italia perde 13 miliardi di entrate fiscali che si sarebbero potuti utilizzare per ridurre la pressione fiscale, contenere l’aumento del debito pubblico e per aumentare la spesa in sanità o istruzione.

Gli impatti sull’Italia 

Il compromesso è ancora più iniquo per il nostro paese se si considera l’esiguo numero di grandi imprese internazionali e l’aliquota media ben superiore al 15 per cento pagata dai nostri contribuenti o dalle nostre piccole e medie imprese, che rimangono così esposte alla concorrenza “sleale” delle multinazionali.

Purtroppo, siamo di fronte all’ennesimo intervento di politica economica che soffoca la crescita della produttività italiana, sfavorendo l’innovazione e la crescita delle imprese italiane.

Altri esempi? L’introduzione di una quota forfettaria che spinge le imprese italiane a rimanere piccole o ad evadere le imposte. Oppure i decenni di flessibilizzazione del mercato del lavoro che ha stimolato le imprese a competere comprimendo i salari invece che ad aumentare la loro produttività innovando.

Per fortuna c’è ancora tempo di cambiare: nulla vieta all’Italia di seguire gli Stati Uniti e fissare un’aliquota più alta al 21 per cento. Inoltre, L’Italia potrebbe promuovere un accordo tra i grandi paesi europei danneggiati dalla concorrenza fiscale come Germania, Francia e Spagna per fissare un’aliquota comune al 21 per cento o al 25 per cento.

Piú in generale, dobbiamo sfruttare la riforma fiscale promessa all’Europa nel nostro Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza per ridurre la pressione fiscale, aumentando la progressività del nostro sistema.

Le imposte devono infatti gravare maggiormente l’1 per cento degli italiani piú ricchi e meno sulle classi medie e basse. Come fare? Si deve aggiornare il catasto, aumentare l’imposta di successione (ben venga la proposta di Enrico Letta), introdurre un’imposta patrimoniale sull’1 per cento più ricco e riformate l’Irpef - un’imposta pagata ormai solo dai lavoratori dipendenti - per aumentarne la base imponibile e la progressività delle aliquote. Questa riforma fiscale sarebbe in linea con quello che il Financial Times definisce come il New Washington Consensus formatosi tra il Tesoro americano e il Fondo Monetario Internazionale.

L’amministrazione Biden ha in programma di aumentare le imposte sulle grandi imprese e i guadagni di borsa degli statunitensi più ricchi, mentre il Fmi ha recentemente proposto un’imposta di solidarietà sui cittadini più abbienti per pagare il costo della crisi del COVID-19.

La politica economica italiana dovrebbe quindi smettere di essere provinciale e sfruttare il nuovo vento mondiale che ha portato all’imposta minima mondiale sulle multinazionali per avere un fisco più giusto che riduca le disuguaglianze e sostenga la crescita.

andrea.roventini@santannapisa.it

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