Tutte le più recenti previsioni convergono su una forte ripresa della produzione e su un Pil che dovrebbe crescere almeno del 5 per cento nel 2021. In molti prevedono anche che entro il 2022 si potranno recuperare completamente i livelli di attività economica precedenti alla crisi,  compatibilmente con un andamento favorevole della situazione pandemica.

Tutto bene dunque? Non proprio. In tutte queste previsioni, in gran parte legate agli investimenti previsti nel Recovery Plan, il punto dolente è l’occupazione sia in termini quantitativi che qualitativi. Le previsioni  più ottimistiche indicano un ritorno ai livelli occupazionali pre-crisi non prima della fine del 2022, o addirittura nel 2023, ma perché questo si realizzi dovrebbero essere recuperati in poco più di un anno oltre 700 mila occupati.

Esistono anche previsioni più pessimistiche, che stimano tempi più lunghi per colmare il numero di occupati mancanti, sulla base del calcolo di un effetto moltiplicatore degli investimenti sull’occupazione meno elevato in Italia rispetto agli altri Paesi europei. Si tratta di stime nazionali, e quindi non direttamente comparabili,  ma negli altri Paesi l’effetto è sempre più elevato rispetto al nostro. Certo, in Italia possono influire le peculiarità del lavoro, ad esempio il numero basso di ore attualmente lavorate che può essere in parte così colmato; diverso e molto negativo risulterebbe, invece, l’effetto sul calcolo dell’occupazione dell’utilizzo per gli investimenti di imprese che non producono a livello nazionale.

Una mole così ingente di investimenti pubblici dovrebbe, invece, generare non solo un forte e immediato impatto sulla quantità di lavoro, ma anche un’occupazione stabile, a tempo pieno e ben retribuita. Due fondamentali aspetti di verifica della complessiva compatibilità del piano.

Non è tutta colpa del Covid

Da recuperare c’è molto, non solo la distanza con i mesi precedenti la pandemia. I dati confermano che, anche allora, l’Italia aveva una percentuale di occupati di quasi 9 punti più bassa rispetto all’Eurozona e con una disoccupazione di 2 punti superiore. Nella realtà quest’ultima è ancora più alta poiché l’enorme numero di inattivi (il più alto in Europa) contiene al suo interno segmenti molto prossimi alla condizione di disoccupati. A maggio 2021, ultimo dato Istat disponibile, sono 735 mila gli occupati in meno rispetto a febbraio 2020.

Quando si parla di lavoro è altrettanto importante la sua qualità, non solo la quantità. Da inizio 2021, la piccola crescita occupazionale che si è realizzata è formata da un sostanzioso incremento degli occupati a termine (+296 mila, nei primi 5 mesi del 2021) e da un calo di quelli permanenti. Gli occupati dipendenti più precari sono tornati prossimi al dato massimo di 3 milioni di persone del 2019.

Una forte precarizzazione è nuovamente in atto: molti la giustificano come un fattore temporaneo o casuale. Certo, un’area di incertezza ancora presente può incidere rispetto al futuro ma sulla base delle previsioni di sviluppo dovrebbe essere rapidamente superata.

Sicuramente, non è colpa del blocco dei licenziamenti, che fortunatamente ha protetto, per quanto possibile, da un ben più grande calo occupazionale. Chi sostiene che nuova occupazione stabile era inibita da quello strumento, dovrebbe spiegare perché i dipendenti permanenti, che sono calati da inizio anno in buona parte per i pensionamenti, sono stati rimpiazzati solo da occupati precari.

La precarizzazione

Il fenomeno è invece spiegabile sulla base delle caratteristiche strutturali e delle scelte del nostro sistema produttivo. A suffragio di questa tesi è interessante una comparazione con la precedente crisi del 2008/2009: i precari allora erano circa un milione in meno rispetto ad oggi ma, anche in quel contesto, furono i primi ad essere espulsi e non c’era nessun blocco dei licenziamenti. Come allora, il numero dei precari è successivamente cresciuto fino al picco del 2019. 

Ma è cresciuto ancora di più l’utilizzo del part-time che ha raggiunto la quota di 4,2 milioni di occupati. Spesso viene presentato come forma di conciliazione ma invece nel 65 per cento dei casi non è così: infatti, si tratta di un part time involontario che viene subìto e non scelto dalle persone, in gran parte giovani e donne. Sommando tutti questi fattori, aumenta l’area del lavoro instabile, involontario e povero.

Anche la povertà è fortemente aumentata: nel 2020 sono circa 5,6 milioni le persone in povertà assoluta e circa 8 milioni in povertà relativa.La soglia di povertà relativa per una famiglia composta da una sola persona è di 601 euro al mese e l’importo medio del Reddito di Cittadinanza per un nucleo familiare con un solo componente è di 481 euro. Sono numeri troppo vicini al salario delle persone che lavorano con frammentarietà, vuoti di attività o part time involontario a basso numero di ore: circa 5 milioni di persone che al massimo arrivano a 10 mila euro lordi annui. Chi giustifica questo stato di cose, di fatto legittima l’alibi per l’alta quota di lavoro nero e grigio che esiste in Italia.

Competizione al ribasso

Lavorare è un fondamentale elemento di emancipazione sociale per le persone e non può avvicinarsi o trasformarsi in lavoro povero. Condizione che non ha niente a che vedere con la strumentale contrapposizione tra i lavoratori non garantiti e chi riesce ad avere un lavoro stabile con una retribuzione che, però, è anch’essa largamente inferiore alla media europea, anche perché nel nostro Paese è più forte l’addensamento dei lavoratori nelle qualifiche medio-basse rispetto agli altri paesi comparabili.

Tutto questo, mi fa propendere per il giudizio di scelta intenzionale di una parte del nostro sistema produttivo sul fattore lavoro, visto esclusivamente come fattore di costo per una competizione che molto spesso si concentra sui segmenti più bassi della produzione. Tutto questo, non ha niente a che vedere con i proclami di costruzione di un paese diverso, con l’uscita dell’Italia dalla pandemia e l’utilizzo delle risorse europee.

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