Certe volte, di sera, attorno alle sette, ricevo una chiamata da numero sconosciuto. Dall’altra parte ormai ho imparato che voce ci sarà: quella di mia nonna, la madre di mia madre, che non vedo da più di un anno, sebbene abiti a pochi chilometri da me.

L’altro ieri per metà telefonata mia nonna ha pianto: a novembre è morto suo fratello, amatissimo, per Covid, e non l’ha saputo fino a qualche settimana fa. Gliel’hanno tenuto nascosto, per paura che ci restasse secca.

Tra le lacrime mi raccontato: «Se n’è andato il 6 novembre, io l’avevo sentito il 5. Quindi già in ospedale. Prima che gli togliessero il telefono, di nascosto mi aveva chiamato. Un minuto di telefonata: ‘Lidia ti chiamo io, tu non stare più a telefonare, ti chiamo io’. Lo sapeva, stava morendo e mi ha chiamato per l’ultima volta».

Il mese scorso è morto anche l’altro suo fratello: l’ha saputo subito, stavolta non sono riusciti a tenerglielo nascosto. A quest’altro fratello era meno legata, ma è come se il secondo dolore avesse aggravato quello per il fratello più amato, delineando insieme il senso del momento che stiamo vivendo. Accerchiata, mia nonna forse a questo punto si sente accerchiata. 
Vive da sola con suo marito, mio nonno, ormai disabile a causa dei postumi di un ictus, e la pandemia l’ha costretta in casa, sprofondata nel tempo senza tempo del marito che vuole pranzare alle dieci del mattino e cenare alle quattro del pomeriggio, che usa il girello per camminare e mischia ricordo, paure e immaginazione.

In dialetto mi dice: «È come un bambino, ormai s’è fatto come un bambino». «Non ce la faccio più», ripete in continuazione, «chiedo al Signore di darmi una mano».

I figli l’aiutano, certo, ma i figli hanno anche la loro vita. Un paio di volte a settimana è costretta a uscire per fare la spesa, anche se ha il ginocchio messo malissimo: la cartilagine del tutto consumata, lo specialista dice che non si può operare, inutile ormai anche valutare la protesi.

Mia nonna è sempre stata una donna estroversa, le amiche dei palazzoni di Rozzano sono state il suo carburante. «Ora non vedo più nessuno», mormora, «sto sempre qua». E sento rimbombare in me l’asfissia senza varchi di una casa più cella che dimora. Vorrei salvarla, regalarle ristoranti e passeggiate, ma non lo faccio, non lo so fare. E ora, dati i rischi, più lontani stiamo e meglio è.

Quant’è forte mia nonna, per quanto ancora sarà così forte?

Scrivo di lei per scrivere di molti, di tutti: mia nonna è una su chissà quanti milioni, storie simili e storie peggiori, gli anziani, si dice: gli anziani.

Ho preso a vederla come una miniatura, un campione, per me dolce e insieme straziante, di tutte le vite che non conosciamo, del destino che riserviamo ai vecchi del nostro Paese, cuori ultravivi eppure accantonati, ritenuti residuali, sacrificabili.

Mia nonna è la donna onnipotente e allegra che mi ha cresciuto: a lei, ora, fintanto che è ancora qua, offro queste parole. Non commemorazione, beninteso, ma monito, invocazione. Non lasciamo che quel che può accadere semplicemente, inesorabilmente, accada.

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