Che qualcosa non funzionasse nel centrodestra sardo, era chiaro anche perché Paolo Truzzu e Giorgia Meloni per un mese si sono presi a pugni sui manifesti elettorali. Da una parte lui, che guardava dritto in camera, e la scritta «nessuno slogan». Affianco lei, che guardava da sinistra verso destra, dalla Sardegna all’Italia, e lo slogan «forte e fiera».

Così dal bipolarismo politico si passava presto a quello cognitivo. Un bisticcio pubblicitario e concettuale che lasciava intravedere, più di qualsiasi invito leghista al voto disgiunto, quale fosse lo stato dell’arte dalle parti della dinastia Meloni, che per le elezioni sarde ha puntato a sorpresa sulla sua famiglia queer.

D’altra parte non aveva la possibilità di candidare nessun parente sull’isola o ancora meglio: formalmente forse avrebbe potuto ma quando parla di sé stessa, e solo in questo caso, la presidente del Consiglio non disprezza balzi progressisti e rinnega volentieri le maglie strette dello ius sanguinis.

Insomma, Meloni ha candidato un estraneo al suo nucleo natale, un tizio così spietato che per ricordarsi di essere feroce deve scriverselo su un braccio, perché altrimenti se lo dimentica. Sempre meglio che appuntarselo sulla fronte, ma sempre peggio che annotarlo su un diario segreto come qualsiasi altro quindicenne insicuro.

Il risultato è che a questo punto in Meloni sarà sempre più forte e fiera la convinzione che al di fuori del secondo grado di parentela Fratelli d’Italia sia un albero genealogico ingovernabile.

La prima donna

Ma il risultato è pure che Alessandra Todde è diventata la prima presidente della Sardegna. O meglio la prima donna a guidare la Sardegna dopo Eleonora d’Arborea, perché a voler essere precisi è dal XIV secolo che su quest’isola si combatte per colmare il divario tra generi.

Poi, certo, Todde è stata imposta dal basso – eletta con il 45,3% dei voti – mentre Eleonora si autoproclamò giudicessa nel 1383 seguendo l’antico diritto regio sardo, secondo cui alle donne era consentito succedere al padre o al fratello.

Ma il punto non cambia: la Sardegna, la terra più antica d’Italia e tra le più antiche del mondo, ha questa capacità di condizionare pesantemente il destino dei leader di partito perché ha una storia di lotte e di emancipazione molto radicata.

Diffidenza istintiva

Talmente radicata che qualsiasi commento sull’elezione della prima donna alla presidenza della regione, è già stato scritto. Basti pensare a Schlein che dice «è cambiato il vento». E mettere le sue parole in risonanza con l’inno sardo, Procurade ‘e moderare, un grido di battaglia antifeudale, scritto nel 1794 da Francesco Ignazio Mannu durante i moti rivoluzionari, che nell’ultimo verso recita: «Cando si tenet su bentu est precisu bentulare» (la traduzione non letterale: quando il vento è favorevole bisogna soffiare).

E questa corrente non può che riportarci immediatamente alle elezioni europee di giugno: la smaccata disomogeneità demografica tra la Sicilia e la Sardegna (5 milioni di abitanti contro 1,5), nella circoscrizione isole, ha sempre svantaggiato enormemente i sardi che di rado sono riusciti a eleggere un proprio rappresentante a Strasburgo.

Questo è solo uno degli esempi più lampanti, e più immediati in termini elettorali, della diffidenza istintiva, quasi connaturata, del popolo sardo nei confronti della politica nazionale.

Il grande sconfitto

Il grande sconfitto di queste elezioni, Renato Soru, ha rappresentato questa faccia della medaglia, l’istanza indipendentista, un certo orgoglio che per non diventare un limite ha però bisogno di essere elevato ad amor proprio, a espressione di dignità.

La sua Coalizione sarda non ha superato nemmeno la soglia di sbarramento ma Soru ha lanciato un’ultima provocazione, commentando l’arrivo di Giuseppe Conte e della segretaria Pd a Cagliari, nella serata di lunedì, per festeggiare la vittoria della loro candidata: «Sono contento del loro turismo in Sardegna».

La cosa migliore, per chi governerà la regione, non è respingere ma fare i conti con questa percezione per riuscire a scacciare per sempre una sfiducia generale che comunque esiste dopo che per cinque anni la Sardegna è stata abbandonata in balìa della giunta Solinas.

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