Dopo un mese di campagna elettorale, l’unica certezza è che in Italia non cambia e non può cambiare mai niente. L’immobilismo è anzi presentato come una virtù, una prova di affidabilità. Lo dimostrano le scelte sulle liste e i programmi elettorali, da una parte e dall’altra.

Giorgia Meloni con Fratelli d’Italia ha scelto l’approccio opposto a quello dei Cinque stelle: invece che candidare volti nuovi e sperimentare una classe dirigente vergine del potere, ha recuperato in blocco quella delle esperienze passate del centrodestra di governo.

Così riduce il rischio di sorprese negative o di scoprire troppo tardi di avere figure inadeguate o incontrollabili in posizioni chiave, ma cambia drasticamente il proprio messaggio elettorale.

Se fino a qualche settimana fa Giorgia Meloni era la proposta nuova di chi vota con l’approccio “proviamo lei che almeno non ci ha già deluso”, ora Meloni punta tutto sulla rassicurazione.

Il governo a guida FdI sarà soltanto la riedizione di quando era a guida Forza Italia, la differenza è minuscola quanto la “d” che distingue le sigle dei due partiti.

Il partito che doveva capitalizzare sulla scelta di opposizione per tutta la legislatura ora candida settantenni passati da varie esperienze di governo finite tutte in sconfitte.

Giulio Tremonti era il  ministro dell’Economia che doveva attuare la rivoluzione liberale e la semplificazione dell’Irpef nel 1994, ora torna come volto di un partito che ha (o aveva) messaggi opposti a quelli del primo berlusconismo.

L’incapacità di Giorgia Meloni di offrire una vera novità agli elettori di centrodestra diventa, nel nostro sistema, un punto di merito, una prova di quella “affidabilità” che non è difesa della Costituzione e dei suoi valori ma dello status quo e dell’assetto di potere attuale.

E infatti il programma di Fratelli d’Italia finisce per sussumere quelli delle due forze collegate, Forza Italia e Lega: perché votare Silvio Berlusconi e Matteo Salvini se Meloni ha trasformato il suo partito in una sintesi degli altri? Blocco navale e rivoluzione liberale fusi insieme dalla fiamma tricolore postfascista.

Ritorno a Renzi

Dall’altra parte l’immobilismo politico e intellettuale è analogo. Qual è la grande proposta del Partito democratico? «Vogliamo aumentare gli stipendi netti fino a una mensilità in più», attraverso il taglio del cuneo fiscale. Vi ricorda niente? Matteo Renzi ha vinto le elezioni europee del 2014 con il pagamento di 80 euro netti in busta paga ai dipendenti con redditi fino a 2000 euro.

In otto anni il Pd ha imparato le tabelline e quindi ora moltiplica 80 euro per 12 mensilità, che fa 960 euro all’anno. Visto che il bonus negli anni è cresciuto a 100 euro al mese, ecco la “mensilità in più” da 1200 euro che promette il Pd di Enrico Letta.

La prima vittima del renzismo cerca di vincere le prime elezioni del dopo-Renzi con la promessa più renziana di tutte. Che, peraltro, non ha alcuna utilità generale, serve solo a comprare il voto di quella fascia di elettorato (così come le flat tax delle destre).

 Sappiamo da tutti gli studi sugli 80 euro della Banca d’Italia che circa metà di quei soldi – oltre 10 miliardi all’anno – è andata in risparmi, mentre contribuenti con redditi più bassi avrebbero speso tutto, con impatti positivi sui consumi e sull’equità complessiva.

L’economista Carlo Cottarelli, candidato col Pd, assicura però che questo ennesimo regalo fiscale sarà sostenibile perché pagato con i proventi della lotta all’evasione fiscale. C’è una lunga tradizione di promesse non mantenute in Italia su questo, praticamente tutti i governi hanno promesso di ridurre l’evasione per tagliare le tasse, con scarsi risultati.

Ora il Pnrr ci impone un po’ più di chiarezza sul punto, ma secondo i dati del ministero del Tesoro l’entità delle risorse disponibili è nell’ordine di 4,4 miliardi strutturali, cioè usabili per interventi ripetuti su base annuale. Ammesso che vadano tutti alla proposta del Pd, al massimo ci sarebbero i soldi per mezza mensilità.

Anche i Cinque stelle hanno finito le idee: il programma promette di mantenere quanto fatto con piccoli miglioramenti al margine, più qualche dichiarazione di principio.

Il populismo del 2018 è stato sostituito da promesse di sprechi a pioggia, dovuto più a insipienza economica che a cattiva volontà: rendere gratuito il riscatto della laurea, per esempio, significa spostare risorse a favore di contribuenti relativamente privilegiati (i laureati lavorano di più e hanno redditi più alti), l’ossessione per il superbonus (oltre 38 miliardi all’anno) deriva dall’incapacità di misurarne correttamente i risultati scarsi più che dal desiderio di sostenere le lobby dell’edilizia e del credito, così come la promessa di riformare per l’ennesima volta la riforma Fornero delle pensioni è l’ammissione del fallimento dell’azione dei governi Conte I-II e Draghi sul tema.

Queste elezioni – storiche e irrilevanti al contempo – dimostrano che la spinta al cambiamento in Italia non può arrivare da leader o partiti, ma soltanto da quel che resta di un società civile che ha trasformato la mediocrità dei suoi rappresentanti in un alibi per il disimpegno.

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