La crisi da inflazione sta diventando una crisi bancaria capace di destabilizzare non soltanto la finanza americana ed europea, ma anche e soprattutto i paesi in via di sviluppo che si trovano esposti alle decisioni prese tra Washington, Francoforte e la Svizzera.

Il governatore del Bangko Sentral ng Pilipinas, cioè della banca centrale delle Filippine, Felipe M. Medalla è comprensibilmente preoccupato: «Quando io ero al governo il costo di finanziamento del governo delle Filippine in dollari sul debito a 10 anni era di 6 punti percentuali superiore a quello del governo degli Stati Uniti. Perché? Perché avevano paura che andassimo in bancarotta», ha detto in un discorso recente a Manila, a metà febbraio.

Poi il governo dell’ex presidente Glori Arroyo, in carica tra 2001 e 2010, ha alzato l’Iva dal 10 al 12 per cento anche sui consumi di base, come elettricità e carburanti, «non è stato piacevole, ma ha risolto molti problemi e lo spread tra Stati Uniti è Filippine adesso è sceso a un punto percentuale».

Quello che il governatore Medalla non dice è che per effetto del rialzo dei tassi di interesse decisi dalla Federal Reserve americana, adesso sul debito a 10 anni le Filippine pagano il 6,3 per cento di tasso di interessi. Che è parecchio: per dare un termine di paragone, l’Italia paga soltanto il 4 per cento.

I paesi emergenti a rischio 

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Se salgono i tassi negli Stati Uniti, sale il costo del debito americano e anche quello di tutti i paesi che hanno un debito estero in dollari o il cui costo si aggiusta al variare delle condizioni monetarie e di cambio rispetto agli Stati Uniti.

Per le Filippine il debito diventa più costoso come conseguenza della politica monetaria americana, mentre l’inflazione resta alta, 8,7 per cento a gennaio.

Le Filippine non sono certo l’unica economia emergente che sta trattenendo il fiato per capire se e come l’attuale ciclo di politiche restrittive negli Stati Uniti genererà disastri nei paesi emergenti come è successo altre volte in passato, quando governi, banche e imprese avevano debiti in dollari di cui non controllavano il costo e che, con un dollaro rivalutato e tassi di interessi americani più elevati, finivano per diventare insostenibili.

Il Fondo monetario internazionale da mesi avverte che il debito accumulato durante la pandemia rischia di diventare insostenibile soprattutto per i paesi più poveri, che sono peraltro quelli che hanno espanso meno la rete di protezione sociale nella fase del contagio, e che dunque si trovano penalizzati due volte: hanno aiutato meno i propri cittadini e ora sono quelli che devono applicare i limiti più severi al proprio bilancio pubblico.

Sempre il Fmi, avverte che in zone tradizionalmente esposte a ondate inflazionistiche – per struttura economia e propensione della politica a ricette irresponsabili – si cammina sul filo: nel 2002 le economie dell’America latina hanno retto abbastanza bene l’inizio della politica monetaria restrittiva negli Stati Uniti e gli shock energetici, con una crescita di circa il 4 per cento, ma l’inflazione anche al netto di cibo ed energia è ancora alta, intorno all’8 per cento, in Brasile, Messico e Cile con Colombia e Perù poco sotto.

Tutto questo mentre le tensioni sociali crescono, come inevitabile dopo che la pandemia ha esacerbato le disuguaglianza: la percentuale di persone in America Latina e Caraibi che sperimenta insicurezza alimentare è quasi raddoppiata, tra 2014 e 2022, e ora supera il 40 per cento.

A febbraio l’inflazione in Argentina ha superato il cento per cento su base annuale (102.5). Come accade circa una volta per decennio, l’economia argentina sembra il laboratorio dove studiare dal vivo le cose da non fare elencare nei libri di testo.

Il presidente Alberto Fernandez ha tentato a dicembre scorso un programma di controllo dei prezzi su 1.700 beni di prima necessità, ma non ha funzionato come non funzionano mai questi approcci burocratici al demone dell’inflazione; la quantità di moneta in circolazione è quadruplicata durante il suo mandato, e ormai un grande paese come l’Argentina sta nella classifica dei paesi con più alta inflazione al mondo insieme a Zimbabwe, Siria, Libano, Venezuela e Siria.

Per non farsi mancare niente, poi, è arrivata anche la siccità che sta distruggendo l’offerta di prodotti agricoli e uno shock sul fronte delle materie prime (se c’è meno produzione quella residua avrà prezzi più elevati) finisce per produrre effetti a valanga in una economia che già sperimenta inflazione elevata. Tutti i prezzi si adeguano insieme al rialzo.

L’Argentina già ora dipende dal Fondo monetario internazionale, che in questi giorni sta sbloccando un altro finanziamento da 5,3 miliardi di dollari come conseguenza delle “politiche macroeconomiche prudenti” approvate dal governo nella seconda parte del 2022. Che non sono bastata però a contenere l’inflazione, che ha sempre anche una origine fiscale (in Argentina ci sono 7 milioni di persone su 46 che dipendono dall’assistenza pubblica).

Ma il Fondo non vuole provocare una reazione populista anti-americana e anti-riforme nell’anno elettorale che ha dicembre dovrebbe vedere la vittoria di un nuovo governo più favorevole al business, e dunque anche agli Stati Uniti, che ora soffrono anche lo slittamento dell’Argentina verso la Russia nella polarizzazione seguita all’invasione dell’Ucraina.

Il dilemma della stabilità

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In patria le banche centrali di Stati Uniti e eurozona si confrontano con il dilemma della scelta tra stabilità economica e stabilità monetaria: meglio stabilizzare i prezzi a rischio di far saltare le banche, o tollerare troppa inflazione per mantenere la quiete in Borsa e nel mercato obbligazionario?

A livello globale lo scambio sembra essere tra stabilità economica domestica e stabilità politica all’estero. E questo riguarda soprattutto gli Stati Uniti. Il meccanismo di trasmissione dalla stretta di politica monetaria decisa dalla Federal Reserve ai paesi emergenti non lascia scampo.

Prendiamo la descrizione da uno studio di Dario Caldare, Francesco Ferrante e Alber Queralto proprio per la Fed.  

Il primo canale di trasmissione è quello del tasso di cambio: un aumento imprevisto del tasso di interesse negli Stati Uniti di solito comporta un apprezzamento del dollaro rispetto alle altre valute.

Per i paesi che commerciano con gli Stati Uniti, o che comunque hanno importazioni in dollari, questo significa che diventa più conveniente esportare ma più difficile importare.

La moneta più debole nei paesi emergenti, come effetto della politica restrittiva americana, spinge al rialzo l’inflazione all’estero.

Il secondo canale di trasmissione è quello della domanda domestica: con tassi di interesse più elevati, i mutui diventano più costosi, i finanziamenti per le imprese pure, e la domanda di beni e servizi negli Stati Uniti si riduce, sia di beni e servizi prodotti internamente sia importati.

Quindi i paesi emergenti che potevano sperare di esportare di più perché la loro valuta si è deprezzata rispetto al dollaro si confrontano con questa spinta di segno opposto.

Il terzo canale di trasmissione è quello finanziario, che passa per l’aumento dei tassi di interesse a lungo termine sui titoli obbligazionari americani.

Questo mutamento, prodotto dalla politica monetaria, spinge gli investitori a vendere obbligazioni di altro genere e a spostarsi su quelle americane, che sono sicure e un po’ più redditizie di prima.

Ovviamente, se scende la domanda di obbligazioni di altro genere, questo significa che i paesi emergenti pagheranno tassi di interesse più alti (se scende la domanda di una obbligazione, si riduce il suo prezzo, cioè sale il rendimento che il debito deve garantire al creditore).

Gli effetti di queste spinte che vanno in direzioni diverse non sono sempre facilmente prevedibili, tra 2004 e 2022 le variazioni dei tassi americani non hanno quasi mai creato tensioni, tranne che nel 2013 quando la Fed di Ben Bernanke ha iniziato a ridurre gli acquisti straordinari di titoli seguiti alla crisi finanziaria del 2008 e questo ha fatto salire dal 2 al 3 per cento i rendimenti a 10 anni dei titoli di debito americano in pochi mesi.

Per evitare la fuga di capitali, le banche centrali dei paesi emergenti sono costrette ad alzare i tassi di interesse per continuare a rendere attrattivi le obbligazioni in valuta. Col risultato di rendere il debito più costoso anche per le imprese e famiglie che si indebitano in valuta locale, oltre che di soffocare la crescita. 

Instabilità europea 

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L’intreccio tra politica monetaria americana ed economie dei paesi emergenti vale anche rispetto alle ripercussioni in Europa. E’ vero che l’economia dell’eurozona è più grande e solida di quella delle Filippine o di qualunque paese sudamericano, ma neppure Christine Lagarde e la sua Bce possono ignorare la stretta di politica monetaria americana e ne subiscono le conseguenze.

Anche se le cause dell’inflazione sono in parte diverse, nel senso che negli Stati Uniti ha pesato di più l’eccesso di sussidi pubblici durante gli anni della pandemia e in Europa lo shock energetico dovuto ai rincari del gas dopo l’invasione russa dell’Ucraina.

Il fragile equilibrio che ha retto per tutto il 2022 – dettato dalla necessità di tenere compatto l’occidente di fronte a Putin, alla Cina e al resto del mondo non allineato con Washington e Bruxelles – inizia a vacillare. C’è sempre l’inflazione alla base dell’instabilità, anche quando le crepe sembrano aprirsi su fronti diversi.

L’aumento dei tassi deciso dalla Fed per arginare l’inflazione americana ha innescato la crisi finale della Silicon Valley Bank, che aveva investito i depositi dei suoi danarosi correntisti delle start up in titoli obbligazionari a lungo termine che si sono svalutati.

La gestione della Fed, con la scelta di garantire tutti i depositanti anche sopra la soglia assicurata di 250.000 dollari, ha reso all’improvviso molte altre banche più rischiose, a cominciare da quelle europee, dove una assicurazione comune dei depositi non c’è a livello comunitario (e in Italia sono garantiti soltanto fino a 100.000 euro).

Questo genera una competizione per la liquidità: non soltanto i titoli in dollari offrono in questo momento rendimenti più elevati, ma le banche americane sono più sicure perché il regolatore ha di fatto cambiato la natura del business bancario, azzerando il rischio (teorico) di corsa agli sportelli.

Oggi negli Stati Uniti chi si presenta a chiedere indietro i soldi depositati in banca è sempre sicuro di riaverli, in Europa no, dipende dalle regole nazionali che stabiliscono quali somme sono garantire.

Ma il rischio sistemico è analogo nei due sistemi, nel senso che sta venendo meno uno dei requisiti su cui si fonda la solidità del sistema finanziario internazionale: la ritrosia dei depositanti a muovere in blocco i loro soldi.

Ormai tutti hanno accesso alle stesse informazioni e togliere i soldi dal conto corrente non significa più accumulare banconote sotto il materasso.

Se i titoli di stato a basso rischio sono quasi altrettanto liquidi che i soldi cash (c’è sempre qualcuno disposto a comprarli), ma offrono un rendimento positivo, perché tenere miliardi di euro fermi in banca a esclusivo beneficio delle banche stesse?

Secondo le analisi dell’agenzia di rating Standard & Poor’s, soltanto nell’ultimo trimestre del 2022 i depositi nel sistema bancario americano sono scesi di 166,4 miliardi di dollari.

Il numero di risparmiatori razionali come lo sono i venture capitalist che avevano i conti alla Silicon Valley bank è (ancora) basso, gli altri si lasceranno gradualmente spennare da inflazione e commissioni bancarie, ma la rilevanza sistemica della questione non cambia.

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Se i depositi non sono competitivi con qualunque altra forma di liquidità, le banche restano a rischio, cosa che costringe le banche centrali occidentali a continuare a sostenerle con misure di liquidità straordinarie che però impediscono così di ridurre la base monetaria come richiederebbero le politiche anti-inflazione.

Così la spirale diventa inevitabile: l’inflazione non scende, i tassi devono continuare a salire ma non abbastanza da fermare i prezzi, le banche diventano così sempre più fragili ma mai risanate, mentre il costo del denaro più elevato continua ad aprire crepe nel sistema finanziario.

A tutto danno dei più fragili, all’interno dei Europa e Stati Uniti o all’esterno, nei paesi più poveri che soffrono per l’aumento dei tassi americani ed europei ma non beneficiano per l’aumento della liquidità alle banche.

Non contiamo sui cinesi

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Nella crisi finanziaria del 2008 il risparmio cinese ha contribuito a salvare il sistema finanziario occidentale, incanalato per salvare le banche o garantire liquidità. Da allora però molto è cambiato, e questa volta la Cina rischia di essere vittima della nuova instabilità invece che una stampella esterna.

Il tasso di risparmio dei cinesi resta il più alto del mondo, al 46 per cento, il doppio della media mondiale (ma nel 2008 era il 52, poi anche i cinesi hanno iniziato a consumare). Ma molto è cambiato nel suo sistema finanziario che è diventato sempre più fragile e sempre sull’orlo del collasso: dagli Stati Uniti le autorità locali cinesi hanno importato le più spericolate tecniche di ingegneria finanziaria per offrire alti rendimenti all’eccesso di risparmio e far sparire il rischio (che però prima o poi torna).

I governi locali si sono fatti i loro veicoli speciali di investimento finanziario (Lgfv), che sono serviti ad accumulare debito che non compariva bene da nessuna parte, nelle statistiche e nei bilanci delle banche.

La liquidità immessa nel sistema per sostenere l’economia quindici anni fa ha contributo a gonfiare una colossale bolla immobiliare, che ora richiede altre costanti immissioni di denaro per gestire lo scoppio al rallentatore, come ha dimostrato il crac del gruppo immobiliare Evergrande nell’autunno 2022.

Anche il sistema finanziario è molto meno isolato e al riparo dagli shock occidentali rispetto alla precedente crisi finanziaria. E’ vero che la Cina ha debito verso l’estero soltanto pari al 15,5 per cento del Pil, poco più di 2.600 miliardi, tutto sommato gestibile.

Ma i canali di contagio possono essere moltissimi, a cominciare dai 3.000 miliardi di riserve in valuta estera accumulate grazie ai surplus commerciali che la Cina ha investito in titoli di stato americani. Il cui valore si riduce con l’aumento dei tassi, come ha sperimentato a sue spese la Silicon Valley bank.

Dal 2015 le banche cinesi hanno cercato di diversificare i propri investimenti, per ridurre l’interdipendenza finanziaria con gli Stati Uniti, ma i due paesi continuano a essere legati molto più di quanto la competizione geopolitica intorno a Russia, Taiwan e tecnologia rende consigliabile per entrambi.

La divergenza in termini di necessità di politica monetaria, poi, non potrebbe essere più evidente: in Cina l’inflazione è intorno all’1 per cento e il problema continua a essere la crescita sotto le attese, zavorrata, tra le altre cose, dalle politiche anti-Covid che hanno paralizzato per mesi l’economia nel tentativo di sopperire con i lockdown alla scarsa efficacia del vaccino autoprodotto.

Il fallimento della Silicon Valley bank potrebbe essere, almeno da un punto di vista simbolico, l’inizio di una nuova fase di instabilità globale anche da una prospettiva cinese: la holding di controllo, Svb financial group, si fregia ancora sul sito aziendale di essere attiva in Cina dal 1999.

Dal 2005 esiste la Svb Venture Capital Management (Shangai), la prima di due controllate aperte in Cina, e dal 2012 c’è una joint venture con la Shanghai Pudong Development Bank che si chiama appunto SPD Silicon Valley bank, «la prima joint venture bancaria ad avere una licenza bancaria in quindici anni» in Cina.

Nella nuova era dell’inflazione e dell’instabilità la Cina sarà forse spettatore o forse la seconda vittima, dopo le banche americane e svizzere, ma di certo non sarà il supporto esterno che ha rappresentato nel 2008.

L’occidente si torva più solo a dirimere il dilemma se privilegiare la stabilità economica o quella finanziaria.


Stefano Feltri ha appena pubblicato per Utet il nuovo libro, Inflazione – cos’è, da dove viene e come ne usciremo

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