La campagna elettorale costringe, quasi ogni giorno, Giorgia Meloni ad avventurarsi nel territorio per lei sconosciuto dell’economia. Nell’ennesima intervista al Corriere della Sera, la leader di Fratelli d’Italia spiega la sua singolare idea di mercato: «Mi ha sempre incuriosito la visione di concorrenza e libero mercato di alcuni che proteggono e coccolano le grandi concentrazioni economiche, le grandi rendite di posizione dei monopolisti, si schierano con chi ha il controllo delle concessioni pubbliche di autostrade e aeroporti, ma invocano la concorrenza per tassisti, balneari e ambulanti».

Pochi giorni fa, a essere pignoli, lei stessa si candidava come referente dei grandi gruppi e prometteva più monopoli e rendite di posizione quando, in una intervista al Quotidiano nazionale, diceva che «Italia e Unione europea devono stabilire quali sono filiere nazionali irrinunciabili e vitali e organizzare filiere nazionali e, laddove non è possibile, affidarsi a filiere europee».

Niente genera rendite di posizione come la produzione organizzata e protetta dalla politica (perché se il mercato non produce da solo filiere nazionali, significa che sono inefficienti e dunque, per esistere, vanno sussidiate).

A difesa delle lobby

La linea di coerenza c’è invece nella difesa di lobby e corporazioni che si appropriano di beni pubblici e li trattano come fossero loro, spesso anche rifiutando i controlli anti evasione fiscale (e infatti Meloni propone di alzare i tetti all’uso del contante). Per tutta la legislatura, Meloni ha continuato a proporre concessioni sostanzialmente eterne per i balneari a cui chiede il voto, con proroghe di 75 anni, mentre quelle nuove – le uniche da mettere a gara – dovrebbero durare almeno 20 anni.

Ora, queste proroghe sono illegali, nel senso che violano le direttive europee, tanto che alla fine anche il governo Draghi si è dovuto adeguare per evitare la procedura di infrazione e dal 2023 scatteranno le gare. Meloni però, non ha mai veramente capito il come funziona il modello: il suo argomento per giustificare la proroga delle concessioni è che il balneare deve essere «libero di investire» sul suo stabilimento. Come se la concessione a scadenza invece lo espropriasse, e quindi dovesse – di fatto – essere equiparata a un regalo.

L’assurdità del ragionamento è palese: se Tizio ottiene un bene in concessione per 10 anni, il primo anno deciderà quali investimenti fare considerando che nell’arco del decennio devono fruttargli abbastanza da ripagare i costi e garantirgli un profitto maggiore. Un problema che riguarda lui, non c’è alcuna esternalità positiva per la società se su una spiaggia invece di un chiringuito e quattro sdraio c’è una colata di cemento e lettini in batteria. Anzi.

Se il balneare sbaglia i conti e non rientra dall’investimento, sono problemi suoi. Al massimo la concessione può stabilire delle tariffe di subentro: mettiamo che investa 50.000 euro al quinto anno che si ammortizzano su un arco decennale, e la concessione scade dopo cinque anni, se la ottiene un imprenditore diverso sarà lui a indennizzare il costo che ancora non è stato ammortizzato. In alcuni contesti le gare prevedono addirittura che il subentrante si faccia carico anche dei dipendenti, figurarsi se è un problema qualche pensilina di cemento  e qualche piscinetta. 

Tutto qua: le gare servono esattamente a questo, a far in modo che la rendita derivante dal fatto che le spiagge sono, per definizione, monopoli naturali vada ai balneari invece che allo Stato. Ma Giorgia Meloni, invece, vuole regalare le spiagge ai suoi elettori costieri, che sono meno dei bagnanti penalizzati ma assai più organizzati.

Il regalo di Meloni ai Benetton

L’apparente difficoltà a capire i meccanismi delle concessioni deve essere antica. Perché la Giorgia Meloni che oggi minaccia sfracelli contro i concessionari è la stessa che faceva parte nel 2008 del governo Berlusconi che ha prolungato la concessione ad Autostrade per l’Italia, nel provvedimento più clamoroso della lunga serie di favori politici e alla famiglia Benetton azionista. Già all’epoca era noto come “decreto salva Benetton”, visto che garantiva aumenti e remunerazione degli investimenti fino al 2038.

In quei mesi, Meloni, ministro della Gioventù, non si occupava di queste minuzie ma proponeva le sue idee prive di ogni riscontro concreto come «l’Erasmus per i politici» e vaghe proposte di «assunzioni di giovani senza raccomandazioni».

Dopo il crollo del ponte Morandi gestito da Autostrade, il leader della Lega Matteo Salvini ha ammesso l’errore, non si trova traccia di pentimenti di Giorgia Meloni che si è limitata a contestare l’incoerenza del governo Conte I che proponeva la revoca della concessione ma non la attuava. 

Peraltro, sarebbe un curioso paradosso se un governo Meloni rivedesse in senso peggiorativo la concessione tra lo Stato e Autostrade adesso che la Cassa depositi e prestiti ha ricomprato la quota di controllo da Atlantia per oltre 8 miliardi di euro.

 Una riduzione della redditività attesa – comunque difficile da fare senza infiniti contenziosi legali – finirebbe per penalizzare soltanto lo Stato azionista, non certo i Benetton che ormai hanno incassato il loro tesoretto. 

Altra nota curiosa: il decreto Salva-Benetton promoosso dal governo Berlusconi, con dentro Meloni, nel 2008 serviva a propiziare l’ingresso di Atlantia nella cordata per uno dei tanti tentativi (fallimentari) di salvare Alitalia. Ovviamente non ha funzionato, ma ora che la nuova versione di Alitalia, cioè Ita Airways, è prossima finalmente alla vendita, ecco che Giorgia Meloni si prepara a tornare al governo e promette di evitare la cessione a Lufthansa-Msc. Chissà a quale costo occulto per i contribuenti italiani, visto come è andata l’altra volta. 

C’è da sperare che in un possibile governo di centrodestra ci sia anche qualcuno che di concessioni e concorrenza se ne intende più di Giorgia Meloni.

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