Tra pochi giorni cadrà l’anniversario della marcia su Roma, atto di nascita dell’esperienza governativa fascista. Ai più avvezzi con la storia del ventennio non sfuggirà lo scambio epistolare fra Benedetto Croce, futuro redattore del "manifesto degli intellettuali antifascisti” ma in principio persino accondiscendente con le scorribande delle camice nere, e il liberale Alessandro Casati.

Casati era proprietario di Villa San Martino, comprata molti anni dopo da Silvio Berlusconi che ha subito trasformato la grande biblioteca nei locali sotterranei in cui si sono celebrate le famose «cene eleganti».

Nello scambio risalente al 1924, anno successivo alle elezioni della Legge Acerbo, Croce esortava Casati ad accettare le offerte di partecipazione al nuovo esecutivo.

Era per lui l’unico modo di poter incidere sulla linea della compagine mussoliniana, evitando pericolose derive autoritarie che si annunciavano all’orizzonte e che sarebbero state confermate in toto dopo il delitto Matteotti.

Non è questo il luogo per giudicare la bontà o meno della strategia crociana, l’episodio ci porta, però, ad interrogarci sui molti rifiuti da parte di tecnici di comprovata fama ricevuti da Giorgia Meloni durante la composizione del suo esecutivo.

La posizione di Meloni ricorda da vicino il governo Berlusconi del 2001. Anche in quel caso era annunciata una vittoria schiacciante confermata poi dall’esito elettorale, che consegnò all’imprenditore di Arcore una netta maggioranza.

Seppur in un contesto politico del tutto diverso, sul nuovo premier aleggiava un misto di curiosità e sospetto perché non si capiva in quale direzione si sarebbe mosso.

La garanzia fu data da Gianni Agnelli (evidentemente un vizio di famiglia, visti i precedenti durante il ventennio), che sponsorizzò la figura di Renato Ruggiero, uomo delle istituzioni internazionali, come ministro del Esteri.

Ruggiero si dimise pochi mesi dopo l’inizio della legislatura, soccombendo alle sparate antieuropee di un Umberto Bossi che stava assumendo l’Ue come proprio bersaglio polemico. La svolta nazionalista di Matteo Salvini è statail punto finale di questo percorso.

Meloni non ha trovato un santo protettore, nonostante gli anni per intessere relazioni non le siano mancati, facendo politica fin dai tempi liceali ed essendo già stata ministro, proprio in un governo Berlusconi.

La sola ricerca di un accreditamento «esterno» ci dice, però, almeno due cose. Prima: l’assoluta incapacità della destra italiana di formare classe dirigente.

Una destra democratico-conservatrice, come quella incarnata da Croce e Casati, dalle nostre parti non è mai nata.

Il secondo insegnamento è di natura diversa: la ricerca di Meloni, accompagnata dal riposizionamento euro-atlantico degli ultimi mesi, dimostra quanto vuota e demagogica fosse la retorica anti-euro, filoputiniana, neo-nazionalista con cui la leader di Fratelli d’Italia ha costruito l’attuale consenso.

Così come capitò coi Cinque stelle, ai miei occhi oggi portatori di una retorica populista uguale e contraria, e con Salvini.

In un discorso in versione Vox di fine campagna elettorale, Meloni ha evocato l’argomento della presunta egemonia culturale della sinistra italiana.

Oggi si svela che non si trattava di egemonia culturale, ma di semplice riconoscimento di dati di realtà, che spingono l’Italia a schierarsi senza ambiguità in un fonte politico ben preciso. Che non è sicuramente quello orbaniano e, men che mai, quello identitario di mussoliniana memoria.

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