Disponiamo oggi di tanta valida letteratura sull’arretramento delle democrazie verso l’autoritarismo. Di tantissima, sulla polarizzazione identitaria spesso alimentata dal sistema mediatico con l’aiuto dei social. Di altrettanta, sulle ragioni sociali dello scempio della democrazia pluralista e deliberative a causa dell’ineguale forza dei ceti di essere rappresentati a fronte di una società di individui soli e senza potere di influenza. Tanta è anche la letteratura sull’impatto dell’anarchia internazionale sul declino delle democrazie occidentali.

Ma c’è un problema che non ha ancora attecchito o comunque non tanto da inaugurare una saggistica corposa. Parliamo del come si esce dalla degenerazione autoritaria. Questo è un problema non per domani ma per l’oggi. Poiché ci porta a riflettere sui disastri che questa involuzione sta producendo allo stato di diritto. Putroppo per noi, a occuparsene sono solo i media. Gli studiosi non sembrano preoccupati, convinti che nulla possa davvero cambiare.

L’interesse dei media

Ma l’interesse dei mezzi di informazione si ferma alla dimensione narrativa – racconta quel che muove le emozioni. Le pagine dei giornali sono generose con l’ennesimo moto di vittimismo, ora da parte della sorella di Giorgia Meloni, che non sembra rendersi conto che stare al centro del potere non consente (povera lei) di avere una vita privata come tutti i cittadini, e traduce la popolarità con «ci vogliono male», «ci vogliono far cadere, ma noi resisteremo!» 

Appena chiuso il sipario sulla defenestrazione di Marino Sinibaldi dal Centro per il libro e la lettura, si apre quello del ministro Gennaro Sangiuliano che impone un regista vicino alla sua parte a dirigere i teatri di Roma, rinnovando i fasti del MinCulPop contro il “dominio” dell’arte e cultura antifasciste. E si potrebbe continuare con le notizie sulla cappa ispettiva sui magistrati o l’accusa di politicizzazione al Csm. Per punire l’indipendenza dalla destra, la destra elimina gli indipendenti.

Non cambia nulla?

Sono così tante le scelte politiche di questo tipo che prima o poi finiranno per non fare più notizia. La vicinanza a palazzo Chigi come patente di ingresso o di uscita – una massima che ora disturba ma finirà per apparire normale. E molti studiosi e opinionisti credono ingenuamente che il sistema non cambierà; la Costituzione anche qualora venisse cambiata si chiamerebbe Costituzione della Repubblica italiana; e le elezioni, pur con una nuova legge Acerbo, continueranno a tenersi.

Ma dovrebbe interessare gli studiosi di politica e gli opinionisti l’infiltrazione negli apparati statali che la destra (in Italia come altrove) mette in atto, dimostrando grande disprezzo (anzi, timore) per il pluralismo, la critica e l’opposizione (se più di una innocua minoranza numerica in parlamento). Per questo, fa saltare la logica di una burocrazia autonoma.

La separazione tra partito e stato – una conquista costata miseria e sangue in Europa — è quel che la destra non digerisce, neppure oggi. Conquistare le istituzioni, violare le regole condivise di nomina non sono meri fatti di cronaca. Sono indicazioni pesantissime di un modus operandi che dimostra come una fetta di cittadinanza non abbia mai accettato che il potere della maggioranza venga limitato da organi non eletti; che la forza della volontà venga limitata dal potere della legge. Demolire la pratica e l’etica dello stato di diritto non richiede tanto sforzo, come si vede. Molto di più ne richiederà ricostruirla. Ecco perché dopo l’analisi della regressione verso forme autoritarie, resta da capire come se ne esce e, quindi, come fermarla.

© Riproduzione riservata