Una bella discussione, filosofica ma concretissima, si sta svolgendo su questo giornale, suscitata da una riflessione di Piero Ignazi sul ben scarso titolo che la destra avrebbe a rallegrarsi delle cadute “morali” della sinistra.
 

Federico Zuolo (14 dicembre) ha preso la palla al balzo per argomentare che una differenza c’è ed è seria: non consiste in una presunta superiorità morale della sinistra, ma da «una ragione discorsiva e valoriale»: mentre le destre si assumono esplicitamente, orgogliosamente, la tutela di interessi specifici, le sinistre si appellano a principi ideali e valori universali – e questo rende indubbiamente stridente ogni incoerenza nei comportamenti.

A giusta ragione gli obietta Mattia Ferraresi (17 dicembre) che, posta in questi termini, la scelta proposta all’elettore non sarebbe una vera scelta ma un ricatto: «Chi voterebbe il Partito del Vizio quando il suo concorrente è il Partito della Virtù?». Ferraresi concede che Zuolo predica semmai più realismo e concretezza, invitando la sinistra a mostrarlo finalmente e davvero, che «i principi giusti, se ben applicati, difendono interessi sacrosanti e non solo di parte». Ma gli oppone il tipico riflesso relativista che nella maggioranza delle persone si associa (io credo, ingiustificatamente) al pluralismo: «Chi stabilisce quali sono i principi giusti e, pertanto, gli interessi sacrosanti. La polizia morale?»

Un’applicazione concreta dei principi giusti

Per una volta, invece di prender parte alla discussione, vorrei caldeggiare l’invito di Zuolo, suggerendo un’applicazione concreta dei “principi giusti”, la quale, se riuscisse, mostrerebbe certamente che essi «difendono interessi sacrosanti e non solo di parte».

La cosa sorprendente è che questo suggerimento, carico di virtù ma anche di realismo politico, viene questa volta da Angelo Panebianco. Che a proposito de La riforma che serve all’Unione europea (Corriere della Sera, 16 dicembre) fa dipendere la corruzione che si è rivelata affliggere il parlamento europeo dalla debolezza del legame fra gli eletti e gli elettori di questa che Panebianco presenta, da un lato, come l’unico organo “democratico” dell’Unione secondo i principi della democrazia rappresentativa; ma, dall’altro, come organo pochissimo rappresentativo di fatto.

Un eccessivo collegamento alla politica nazionale

In primo luogo per l’ignoranza che affligge la maggior parte degli elettori (e dei molti che non votano) sul modo in cui la forza dei diversi gruppi parlamentari europei incide (o dovrebbe incidere) sulla composizione della Commissione (l’organo esecutivo); ma in secondo luogo perché chi vota lo fa quasi esclusivamente in funzione della politica nazionale.

E non è sorprendente allora che il rapporto fra elettori ed eletti non sopravviva alle elezioni, privando il parlamento della pubblica attenzione e sorveglianza necessarie al suo funzionamento virtuoso. Da cui la proposta di una riforma che faccia dell’elezione del parlamento europeo «una vera elezione su scala continentale» dove si voti «per liste europee, per raggruppamenti europei»: solo così l’elezione del Parlamento europeo non sarebbe una semplice somma di elezioni nazionali.

Una proposta assolutamente condivisibile, con la sola differenza che Panebianco la gira al Consiglio, quindi all’organo rappresentativo dei governi nazionali e non dei cittadini europei. Che sarebbe come consigliare a questi governi una specie di eutanasia.

Mentre è proprio ai partiti nazionali di destra e di sinistra che bisognerebbe girarla. Perché tutti avrebbero interesse a rafforzarsi sul piano dove la gran parte delle decisioni ormai vengono prese: l’Europa. Ma chi potrebbe non condividere un ideale di civiltà che escluda la guerra e affidi all’impero del diritto anche selva geopolitica? E chi non vede che oggi in questioni di pace e guerra, pandemie e sconvolgimenti ecologici le politiche nazionali incidono meno di nulla – cioè semmai solo in negativo?

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