Per la prima volta nella mia vita, da cittadina e giornalista, trovo difficile e mortificante inserirmi in un dibattito - quello sulla guerra - poiché ho la sensazione di trovarmi su un brutto crinale, sia come cittadina che come giornalista.

In entrambi i casi mi sento in pericolo. Il brutto crinale è l’assenza di un elemento dal dibattito, un elemento a lungo discusso durante il Covid, ai tempi (cioè fino a ieri) protagonista delle nostre vite e polemiche: la paura.

In questa spaventosa fase della storia si parla solo di coraggio, quello eroico degli ucraini che diventa persino un brand sui palazzi e viene celebrato giornalmente con una inesorabile e pericolosa spettacolarizzazione della guerra, quello della grande madre Russia, quello che dovremmo avere noi tutti nel decidere di essere pronti alla terza guerra mondiale perché non possiamo lasciare sola l’Ucraina. Che gente saremmo.

Il coraggio è un dovere

A Piazza Pulita, tempo fa, un giornalista sbraitava che il dibattito sull’inviare o no le armi in Ucraina è «stucchevole» (giuro, ha usato questo aggettivo), perché inviarle è una decisione giusta e basta ma, ha aggiunto, purtroppo c’è quella fetta di italiani cinici che non vogliono.

Il coraggio, insomma, è una sorta di dovere che non meriterebbe neppure un parere e chi non lo possiede è cinico o vigliacco perché vuole lasciare l’Ucraina al suo destino.

Non esiste il diritto alla paura. Che, attenzione, in quanto spogliata del diritto di esistere è completamente rimossa dal dibattito. Ed è paradossale perché col Covid abbiamo passato due anni a discutere di paura -  paura del contagio, della morte, del fallimento economico, dei disturbi psichiatrici negli adolescenti, delle conseguenze sui mercati - e ora, con la prospettiva più che plausibile di una Terza guerra mondiale, l’essere contrari all’invio di armi viene immediatamente derubricato a vigliaccheria. A egoismo. O, peggio, a una simpatia per Vladimir  Putin. Perfino per chi aveva paura dei vaccini c’era più comprensione. Perfino per il terrapiattista che chi si rifiutava di credere alla scienza.

Il terreno del confronto

AP Photo/Felipe Dana

«Bisogna rispettare la paura del corpo violato, dell’irrazionalità, bisogna prendere per mano queste persone, non essere aggressivi», si diceva.

Allora mi torna alla mente l’ammonimento lugubre, perentorio di Mario Draghi di fronte alla paura di vaccinarsi: «L’appello a non vaccinarsi è l’appello a morire!», disse. E poi quello lanciato di fronte allo scetticismo degli italiani sulle conseguenze di questa guerra: «Preferite la pace o il condizionatore acceso?».

Insomma, se non ti vaccini muori, se vai in guerra al massimo un po’ di sudarella a Ferragosto. Ecco. Una comunicazione funzionale alla rimozione della paura. In particolare, non si parla mai di conseguenze.

Eppure tra il condizionatore spento e le simulazioni di lanci di testate nucleari sulle tv russe, dovrebbe esistere un terreno onesto su cui confrontarsi. Un terreno che preveda ascolto e comprensione per quella larga percentuale di italiani che dalla politica e dalla stampa viene dipinta come Busacca e Jacovacci, i due soldati codardi della Grande guerra (senza il riscatto finale).

E allora parliamone di questa presunta vigliaccheria, perché la sensazione è che mentre nelle redazioni infuria lo slancio bellico (soprattutto tra quelli che ai tempi hanno evitato la leva obbligatoria per una virulentissima dermatite seborroica al mignolo), fuori, tra la gente, esista ancora quel senso di realtà che impone una domanda: cosa rischiamo?

E sia chiaro: il coraggio senza valutazione del rischio (che poi si può decidere di correre comunque) è da fessi, non da eroi.

Ebbene, scusate se lo ricordo così come evidentemente se lo ricordano parecchi italiani, ma stiamo parlando di conseguenze che possono essere un’agonia di anni, la povertà nostra e di paesi per cui povertà è già oggi fame e carestia, l’assenza di risorse energetiche, l’addio alla mia casa, alla mia città, al mio paese, la perdita del lavoro, la fine di ogni progettualità, l’assenza di futuro per i figli, la mia morte, la morte di chi amo, la distruzione di una nazione, di un continente, del mondo, l’olocausto nucleare, l’estinzione della specie.

Ecco, perché tutto questo deve essere chiaro ed esplicitato, altrimenti ci si convince di perdere al massimo qualche carro armato al Risiko.

O due gradi di aria condizionata. Invece la grande propaganda bellica, nel nostro paese, consiste proprio in questo: nella rimozione del rischio e quindi della paura. Nella minimizzazione. E, passaggio ancora più grave, nel ridicolizzare chi quel rischio se lo sente appiccicato addosso perché sa che escalation non vuol dire “mi ha attaccato, domani gli rispondo sul mio giornale”.

La paura oltre la geopolitica

Ukrainian Presidential Press Office via AP

Poi certo, ci sono le cronache dal fronte con i morti sull’asfalto e c’è questo immenso esercizio di analisi geopolitica, ma i morti dopo due mesi si somigliano tutti e la geopolitica resta un terreno elitario. Alla fine, per tanti, resta solo la paura. Che è uno stigma.

Ci si sente perfino disertori della solidarietà, nell’averne. Nonostante quello che è in gioco, e cioè tutto.

Si finisce perfino accostati ai no-vax, perché la strada della ridicolizzazione degli italiani che hanno paura della guerra passa anche attraverso la semplificazione bambinesca: pacifista=pro Putin=no vax. 

Non dovrebbe passare giorno in cui non ci si ponga il problema del futuro dell’Ucraina e senza che ci si dica a chiare lettere cosa siamo disposti a perdere, per il futuro dell’Ucraina. Senza bluffare, però.

Visto che mi occupo molto, e anche con occhio critico, della comunicazione di Zelensky, molti ritengono che io simpatizzi per Putin o chissà, che abbia un conto in rubli aperto presso la banca di Sondrio per non dare nell’occhio.

La verità è che me ne occupo perché quella comunicazione contribuisce alla pericolosa, sinistra rimozione del concetto di paura. E trovo che lo faccia in maniera ben più ambigua di quanto non lo faccia la propaganda russa per due ragioni: la propaganda russa funziona molto internamente, meno fuori dai confini. Ed è spesso ai nostri occhi grottesca. In seconda battuta la loro eroicizzazione del sacrificio per la patria è ampollosa, rituale, militaresca.

E’ parate, medaglie, soldati in file perfette, giornalisti inespressivi, tavolini troppo lunghi. La loro narrazione della guerra è respingente, distante. Non genera paura ma repulsione. Quella di Zelensky, invece, arruola emotivamente.

Trasforma la guerra in un videogioco, il coraggio in un comando del joystick. I filmati in stile Netflix, i discorsi enfatici, le foto della guerra col filtro “struttura”, l’esaltazione del coraggio fino alla morte, gli spot, i manifesti, i soldati con i gattini, il presidente con la divisa del soldato.

La rimozione

People walk at a local park as firefighters extinguish a fire following a Russian bombardment in Kharkiv, Ukraine, Tuesday, May 3, 2022. (AP Photo/Felipe Dana)

Il numero dei soldati ucraini morti che non esiste. Esiste solo quello dei civili, perché la guerra che si vive al fronte è solo onore, vittorie e medaglie. Non esistono i disertori, che pure esistono e si nascondono nei bagagliai delle auto o sotto strati di trucco per sembrare donne (ebbene sì).

Esistono, perfino, le mogli dei neo nazisti del battaglione Azov, pur di portare il coraggio ucraino in tour. Il coraggio della guerra. Che non è brutta e sporca, è l’eterno, eroico sacrificio. La negazione della paura, appunto.

Quella negazione che tanto piace alla stampa italiana, altrettanto alla politica, meno ai cittadini. I cittadini che oggi cercano qualcuno che li rappresenti nel loro desiderio di solidarietà all’Ucraina e nel rispetto della loro paura.

Che non li mortifichi, che non faccia i sorrisini irridenti alla Alan Friedman quando si ipotizza un olocausto nucleare, che non dimentichi cosa significhi un orizzonte di morte, che abbia bene in mente che anche solo in caso di crisi economica, chi ha poco non avrà niente. Dai nostri vicini di casa, ai paesi del terzo mondo. 

Mio padre, che la guerra l’ha vissuta, per cui la guerra non è un concetto astratto ma sirene e bombe sulla testa, ha paura. E non è che non pensi all’Ucraina o si aggrappi egoisticamente al suo futuro. Ha quasi 88 anni.

Semplicemente, conosce la guerra per quello che è. Lui che scappando da Genova si è ritrovato sulla linea Gustav con la famiglia, conserva intatto il suo diritto alla paura.

Sa quanto ingannevoli e strumentali siano i parallelismi con altri momenti storici e altri eroi. Sa che non c’è niente di sporco e mortificante nell’avere paura. Sa che chi invoca la necessità della guerra a tutti i costi e non ha pietà per chi non la vuole, guarda rapito il dito sul grilletto e non la luna.

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