Ci sono parole che feriscono e uccidono, e altre che portano con sé la forza di chi lotta per la vita.

Le «parole per ferire», come le ha chiamate Gianni Rodari in una famosa filastrocca, sono le parole d’odio usate contro gruppi che subiscono discriminazione e oppressione. E quelle che, anche quando pronunciate senza intenzione di offendere, alimentano discorsi intrisi di stereotipi.

Le parole che sostengono la vita hanno invece il potere di avvicinare la comprensione del mondo, aiutando a cambiarlo.

La parola del 2023

“Femminicidio”, che l’Istituto della Enciclopedia Italiana ha selezionato come parola dell’anno 2023, fa parte del secondo gruppo, anche se nel suo significato rimanda all’uccisione, all’uccisione di donne. Per il vocabolario Treccani, il termine indica l’«eliminazione fisica di una donna in quanto tale, espressione di una cultura plurisecolare maschilista e patriarcale che, penetrata nel senso comune anche attraverso la lingua, ha impresso sulla concezione della donna il marchio di una presunta, e sempre infondata, inferiorità e subordinazione rispetto all’uomo».

Prendere atto per poi agire

Maschilismo, patriarcato, subordinazione: la definizione contiene le chiavi essenziali per la comprensione di un fenomeno senza tempo e tuttavia attuale, segnalando altrettanti obiettivi per gli sforzi orientati a prevenirlo e contrastarlo. L’elezione del termine a parola dell’anno sembra indicare che qualcosa, nella coscienza di tante e tanti, si è finalmente mosso, dopo l’uccisione di Giulia Cecchettin, dopo le parole della sorella Elena e del padre Gino, dopo la grande piazza del 25 novembre.

Sarebbe però un eccesso di ottimismo, forse d’ingenuità, trarre da questi bilanci di fine anno, in cui il tema della violenza contro le donne occupa un posto rilevante, l’impressione che una nuova cultura possa avanzare inarrestabile.

Strutture da scardinare

Innanzitutto, perché quando parole come “femminicidio” entrano nel linguaggio quotidiano si tende a dimenticare la storia di lotte, e di sangue, da cui sono nate, e attraverso cui hanno conquistato l’attenzione pubblica.

Alle spalle di questo risultato ci sono non solo le morti di un numero incalcolabile di donne in tutto il mondo, ma anche decenni di attivismo dei movimenti femministi per cambiare la narrazione della violenza, per sostituire locuzioni come “delitto passionale” o “dramma della gelosia” con un termine capace di indicare, insieme al genere della vittima, anche la motivazione, segnalando tutti i casi in cui le donne sono uccise in quanto donne. E “in quanto donne” significa a causa delle strutture di potere che mantengono le donne in condizione di inferiorità, assegnando loro ruoli funzionali alla conservazione della supremazia maschile.

Reazioni e reazionari

Ecco dunque la seconda ragione per cui non si può guardare con facile ottimismo al cambiamento da realizzare. Se da un lato il rumore della protesta ha obbligato la destra di governo ad accantonare storiche resistenze e a elaborare un piano – per quanto annacquato e del tutto insufficiente – per l’educazione all’affettività, dall’altro esponenti della stessa maggioranza non mancano di riproporre una visione reazionaria dei ruoli di genere.

Il caso Mennuni

L’ultimo caso è quello della senatrice di Fratelli d’Italia, Lavinia Mennuni, che ha parlato della maternità come «prima aspirazione», addirittura come «missione» delle donne, a cui avvicinare le giovani e giovanissime attraverso uno sforzo – si direbbe – di rebranding: «la maternità torni a diventare di nuovo cool».

Niente di nuovo, in verità, sul fronte di una destra che non ha mai smesso di usare la maternità come bandiera identitaria.

Difficile dimenticare Giorgia Meloni che nella conferenza programmatica 2022 di Fratelli d’Italia, di poco precedente alla sua vittoria elettorale, parlava di quattro M per quattro priorità: mamma, merito, mare e marchio. O che a ottobre di quest’anno, presentando la manovra di bilancio, motivava la decontribuzione per le madri affermando: «una donna che mette al mondo almeno due figli ha già dato un importante contributo alla nazione».

Parole che feriscono

Il destino di madre non è mai stato cool per le donne, a meno che con questo aggettivo bizzarro si intenda «desiderabile in quanto principale sorgente di riconoscimento sociale». Dietro dichiarazioni come quella di Mennuni si nasconde una visione nostalgica dei ruoli di genere, che non amplia ma restringe le opportunità, per ogni ragazza, di dare forma al suo futuro.

È difficile credere che le giovani donne, che lasciano l’Italia in numero crescente, possano essere attratte dal lato cool della maternità, in assenza di misure concrete, di infrastrutture sociali che supportino le scelte riproduttive. Ciò che preoccupa però la cultura che simili parole esprimono. Perché è la stessa cultura che alimenta il femminicidio.

Pensare, parlare, fare rumore

Sono, quelle della destra, «parole per fingere» o «parole per ferire», citando ancora il catalogo di Rodari. A contrastarle serviranno «parole per fare rumore», ma anche «parole per pensare» e «parole per parlare».

Perché i cambiamenti nel linguaggio, come nella realtà, passano dalle lotte: le parole viaggiano sulla gambe di chi dà loro corpo e vita.

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