Il lungo e accidentato percorso del reato di tortura in Italia inizia il 3 novembre 1988, con la pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale della legge di ratifica della Convenzione del 1984 contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, disumani e degradanti.

Termina il 17 luglio 2017, oltre 28 anni dopo, con l’approvazione della legge che introduce nel codice penale l’articolo 613-bis.

I quasi tre decenni trascorsi tra l’inizio e la fine di quel percorso sono stati dominati dalla polemica tra due posizioni contrapposte, rappresentate rispettivamente dal “partito dell’antipolizia” e dal “partito dell’impunità”: che il reato di tortura fosse necessario perché “la polizia tortura” o, al contrario, che non fosse necessario perché “la polizia non tortura”.

Anche se la prima posizione era vera, il punto era un altro: il reato di tortura ci voleva perché l’Italia, ratificando la Convenzione delle Nazioni Unite, si era impegnata a darle esecuzione nel diritto interno.

Forse, se si fosse partiti da qui e non dalla discussione se la polizia torturasse o no, di anni ce ne sarebbero voluti meno di 28.

Pantano in aula

In ognuna delle legislature iniziate a partire dagli anni Novanta sono state presentate numerose proposte di legge dall’inevitabile destino: stravolte da emendamenti grotteschi, impantanate nei lavori parlamentari, non arrivate al voto per lo scioglimento delle Camere.

Mentre eventi drammatici e relativi processi, a partire da quelli per i fatti del G8 di Genova del 2001, mostravano quanto l’assenza del reato di tortura avesse reso impossibile la sanzione giudiziaria di una delle condotte criminali più gravi descritte dal diritto internazionale, nel dibattito italiano mancava la voce dei diretti interessati (le persone torturate) e si levava, invece, sempre più potente quella di vari sindacati di polizia, dei loro alleati politici e pure di qualche magistrato: il reato di tortura avrebbe screditato le forze di polizia nel loro complesso, avrebbe impedito indagini efficaci, avrebbe reso inerme il personale delle carceri di fronte a comportamenti violenti.

Genova e la tortura

Intorno alla metà dello scorso decennio, una serie di sentenze della Corte europea dei diritti umani riferite a Genova ha scritto chiaro e tondo che quel vuoto legislativo era il motivo della mancata adeguata punizione di condotte che avevano quel nome impronunciabile: tortura.

L’articolo 613-bis nasce dunque dalle sollecitazioni della Corte. Frutto di compromessi così come di polemiche tra i sostenitori del “poco è meglio di niente” e del “poco di niente è parente”, almeno ha scardinato il tabù dell’impronunciabilità e non è poco. Guardando alle due legislature successive, è stata l’ultima occasione utile.

Trattamento escludente

Il reato è specifico ma non anche “proprio”, ossia non riguarda solo le condotte di pubblici ufficiali, per i quali è prevista un’aggravante. La definizione è ampollosa, barocca e confusa. Rivela l’intenzione del legislatore di escludere più che di includere tutte le forme della tortura contemporanea e di rendere complicato il lavoro dei giudici; contiene formule complicate come il “verificabile trauma psichico” e una congiunzione ambigua (“ovvero”), che necessiterà di una successiva interpretazione per scongiurare la possibile limitazione della fattispecie a comportamenti ripetuti più volte.

Impatto concreto

Pur con questi limiti, il reato di tortura ha mostrato di essere efficace almeno dal punto di vista della punizione. Sono state aperte indagini, sono stati celebrati processi, sono state emesse condanne (Ferrara, San Gimignano).

L’associazione Antigone ha calcolato che in un arco temporale di sei anni i funzionari dello stato indagati, imputati o già condannati sono circa 200. Le principali indagini in corso riguardano Torino, Biella, Monza, Reggio Calabria, Bari e soprattutto Santa Maria Capua Vetere.

Il dibattito di questi giorni, nato dalla presentazione in Commissione giustizia da parte di Fratelli d’Italia di un progetto di legge abrogativo, solo parzialmente chiuso dal ministro Nordio che mercoledì alla Camera ha detto che «il governo non vuole abrogare il reato di tortura», non sorprende.

Meloni contro il reato di tortura

Non sorprende perché coloro che per 28 anni si erano opposti, ora stanno al governo. Lo presiede colei che nel 2018 scrisse in un tweet, poi cancellato, che recitava: «Il reato di tortura impedisce agli agenti di fare il proprio lavoro».

Non sorprende neanche l’argomento usato: la definizione sarebbe eccessivamente ampia. Non “troppo poco” come avevano ammonito le organizzazioni per i diritti umani, ma semplicemente “troppo”.

Dietro i “ritocchi tecnici” annunciati, tra una rassicurazione e l’altra, dal ministro Nordio e che avrebbero lo scopo di invocare il reato di tortura solo quando si dovrebbe, restringendone dunque definizione e applicazione (con buona pace delle indagini e dei processi d’appello per le condanne in primo grado), s’intravede nuovamente uno spettro: quello dell’impunità. I numeri e la volontà di ripristinarla ci sono.

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