Del discorso della ministra della Giustizia, Marta Cartabia, a Santa Maria Capua Vetere si può sottoscrivere anche la punteggiatura. Le pene che non devono essere contrarie al senso di umanità, il sovraffollamento delle carceri, le strutture fatiscenti, la necessità di pene alternative alla detenzione, le riforme strutturali dell’ordinamento, il ruolo degli educatori, il carcere come comunità tesa al recupero e al reinserimento in società, le risposte «immediate e indifferibili»: tutto giusto e condivisibile. Perfino troppo giusto e condivisibile. Introdotta da un breve discorso del premier Mario Draghi, Cartabia si è concentrata sulle «cause più profonde di quello che è accaduto» e ha indicato alcune direttrici fondamentali per risolverle, promettendo di riagganciare più saldamente la dolorosa questione carceraria italiana al dettato costituzionale. Lo ha fatto con riferimenti colti ed eloquio forbito, qualità che mettono speranza se confrontate con certi casi recenti e presenti di semianalfabetismo ministeriale. Un modo benevolo per descrivere questa strategia per affrontare il problema è dire che Cartabia ha volato alto. Un modo più realista è dire che ha cambiato discorso. Cercare di afferrare le cause remote di un fenomeno è esercizio nobile e segno di intelligenza, ma il rischio, quando si parla della complessa faccenda dei delitti e delle pene, cioè del bene e del male, è che si finisca per arrivare in un baleno ad Adamo ed Eva, alla mela, al serpente e al peccato originale. Sono questioni, per dir così, di lungo periodo e incredibilmente interessanti, ma un ministro della Repubblica ha innanzitutto la responsabilità politica di mettere una pezza sulle cause prossime di un fatto di gravità inaudita, non solo di fare brevi cenni sull’universo carcerario.

Dire che ora alle parole devono seguire i fatti è, oltre che una banalità da bordo piscina, totalmente fuori fase rispetto al contesto in cui la visita è maturata, anzi si è imposta. In questo caso, le parole condivisibili della ministra dovevano arrivare dopo i fatti. Fatti che aveva tutto il potere di esercitare, dalla sospensione estesa non solo agli agenti indaganti, che era il minimo sindacale, a qualche misura per la direttrice del carcere, che nella migliore delle ipotesi ha creduto a una versione fuorviante e fasulla di quello che è successo il 6 aprile del 2020, fino ad arrivare a conseguenze «immediate e indifferibili» per la catena di comando del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria.

Senza contare che avrebbe potuto riferire tempestivamente in parlamento, gesto di elementare grammatica istituzionale che anche esponenti autorevoli del Pd hanno chiesto in aula. Non si dica poi che avrebbe potuto addirittura rispondere alle domande dei giornalisti, anche quelli senza la cetra in mano, richiesta che a questo punto è considerata un fastidioso malcostume. La ministra, che ha ereditato il dossier del suo predecessore, Alfonso Bonafede, aveva il potere di intervenire in modo molto più energico senza interferire con il lavoro di procure e tribunali, dato che lo spazio di azione del ministero è regolato più da consuetudini che da norme. Se i tragici video della spedizione punitiva contro detenuti inermi non sono sufficienti per stimolare manovre decisioniste a scopo cautelativo, all’occorrenza prendendosi la responsabilità di qualche forzatura istituzionale rispetto ai costumi del passato, cosa potrà esserlo?

Impolitica

Quella che si è presentata davanti al carcere è stata una figura sostanzialmente impolitica. Oppure politica soltanto nel senso della manualistica, dei buoni concetti scritti nell’aria, non dell’esercizio delle responsabilità e del potere che danno sostanza al suo ruolo esecutivo. Cartabia ha detto che «non siamo qui per fare un’ispezione», ma se non facevano un’ispezione, cosa facevano? Una prolusione? Un simposio? Un’omelia? «Siamo qui perché i gravissimi fatti accaduti richiedono una presa in carico collettiva dei problemi dei nostri istituti penitenziari», ha detto, con una formula ottima per l’introduzione a un convegno sulle opere del Beccaria.

Il condivisibile discorso di Cartabia avrebbe potuto essere fatto ovunque, non c’era bisogno di spingersi fino a Santa Maria Capua Vetere, se non per ragioni simbolico-mediatiche. Se si toglie il cappello introduttivo legato ai fatti, il testo s’attaglia a un’aula universitaria o a un gruppo di studio di settore, s’intona a tutti i colori e non sfigura mai, orientato com’è alla dimensione universale. Il dramma è che sul particolare la ministra non ha fatto quasi nulla. A Santa Maria Capua Vetere è apparsa una figura di elevata statura intellettuale e basso profilo politico.

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