In Timore e tremore Kierkegaard cita un vecchio proverbio: «Soltanto chi lavora ha da mangiare». Kierkegaard lo cita perché è un proverbio imperfetto e dunque interessante.

E ha ragione: sappiamo bene che le cose non stanno così, che molte persone hanno da mangiare senza lavorare, che molti anzi hanno molto più del mangiare non facendo assolutamente nulla, per esempio perché siedono su un capitale accumulato da generazioni o perché sono nate sopra un pozzo di petrolio.

Poi c’è il caso di chi lavora, ma poco rispetto a quanto guadagna, e il caso di chi guadagna, ma poco rispetto a quanto lavora. Esiste insomma ogni sorta di distorsione, e spesso le distorsioni sono anche difficili da discutere, perché è difficile stabilire cosa significhi lavorare molto o poco. Tuttavia possiamo dire, senza paura di sbagliare, che la ricchezza che abbiamo non è correlata in modo diretto alla quantità di lavoro che svolgiamo.

La questione, in sé brutale nel suo essere elementare nel nostro sistema, è in realtà messa in dubbio da molte persone di successo (successo economico) che ritengono di meritare tutto quello che hanno, in maniera esatta. Ma insomma, niente di nuovo, siamo alle solite: molti esseri umani non hanno un senso dell’opportunità sviluppato.

Ricchezza spirituale

Quello che però mi interessa è un altro aspetto: se appare chiaro che la ricchezza materiale e il lavoro non si trovano in una relazione diretta, possiamo dire che anche la ricchezza spirituale e il lavoro spirituale non si trovano in una relazione diretta? Detto in altri termini, è possibile diventare spiritualmente ricchi seguendo una scorciatoia, beneficiando di un privilegio, di un’eredità, di una distorsione, così come avviene con la ricchezza materiale?

La domanda pone anzitutto un ostacolo nel fatto che dobbiamo definire cosa si intende per ricchezza spirituale, e ognuno avrà la sua definizione, che non deve essere per forza religiosa (per Kierkegaard lo era). Se volete, chiameremo ricchezza spirituale una relazione profonda con qualcosa che è più grande di noi. Ma al di là della definizione, è importante lo schema del ragionamento. Kierkegaard risponde che non è possibile diventare spiritualmente ricchi senza lavorare in maniera esattamente commisurata al diventarlo: «Nel mondo dello spirito (…) solo il lavoratore ha il pane».

Nel mondo dello spirito, insomma, ogni istante di lavoro corrisponde a una precisa quantità di crescita dello spirito. Una produttività definita in modo chiaro. Poi magari la regola che guida la relazione fra lavoro spirituale e ricchezza spirituale è sfuggente, perché lo spirito lo è. Ma da qualche parte questa regola esiste, forse custodita sotto la sabbia del deserto.

Scorciatoie per il capitale

Mi capita spesso di ricevere su Instagram le pubblicità di app che promettono qualche forma di crescita spirituale. Migliorare la propria interiorità in un solo mese, aumentare la propria consapevolezza in dieci comodi step. Poi c’è la mia preferita: diventare la donna più interessante della stanza (la pubblicità dice proprio una cosa del genere: the most interesting woman in the room). Come? Ascoltando la lettura in audiolibro di una serie di libri “importanti” che qualcuno ha riassunto per te. Così da farsi una cultura vasta in breve tempo.

Non sono fenomeni nuovi: i riassunti sono sempre esistiti, i libri di auto-aiuto anche, in generale le scorciatoie per ottenere il capitale spirituale non sono una novità. Ma oggi tutto questo è presente al massimo, proprio perché si spera di poter ottenere i miracoli dell’ultraproduttività anche in campo spirituale. O intellettuale: la scuola segue sempre più il modello di una fabbrica che produce persone “capaci” di affrontare in maniera “efficiente” una serie di sfide.

Eppure lo spirito umano è sempre lo stesso, l’intelletto anche. La mente, la nostra attenzione (di cui parlavo la settimana scorsa) sono fatti della medesima materia di cui son sempre stati fatti. Come il tempo, come il sentimento. Lo spirito, per coltivarsi, ha bisogno dello sforzo silenzioso, e solo con lo sforzo si viene ricompensati. La fatica è il nutrimento dello spirito, e lo spirito diventa abbondante se – paradossalmente – viene usato, consumato in qualche modo, addirittura donato senza troppo riflettere (a quel punto, per magia, tornerà da noi: lo spirito non si moltiplica in noi, si moltiplica come regalo che facciamo agli altri).

Di nuovo, non si tratta di discorsi per forza religiosi, ma nell’epoca in cui forze oscure spargono per il mondo il bigottismo spacciandolo per spirito è bene che le persone contrarie a quei venti coltivino l’economia dello spirito. L’artigianato dello spirito.

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