Molti di coloro che hanno osservato sgomenti l’assalto al Congresso americano aizzato da Donald Trump hanno esultato quando Mark Zuckerberg ha annunciato il blocco a tempo indeterminato dell’account del presidente degli Stati Uniti ancora in carica: «I rischi di permettere al presidente di continuare a usare il nostro servizio in questo periodo sono troppo alti».

Questa decisione, presa all’apparenza per tutelare quel che resta della democrazia americana, certifica invece il degrado della sfera pubblica che in questi anni è stata corrosa dal populismo ma anche dagli abusi delle piattaforme digitali.

Immaginate la scena nel mondo pre-social, diciamo 2005-2006: la Cnn che toglie l’audio a un candidato presidente perché dice cose sgradite, la Rai che non manda più in onda la Lega nord perché parla di “terroni”, Telecom Italia che chiude le utenze di palazzo Chigi perché Silvio Berlusconi invita allo sciopero fiscale…

Non si tratta di difendere il diritto alla libertà di espressione di Donald Trump: le sue incitazioni alla violenza e la scelta di non riconoscere l’esito delle elezioni di novembre sono un assalto, non solo metaforico, alla democrazia. E sono molto probabilmente un crimine, che come tale verrà perseguito. Ma deve preoccuparci che Mark Zuckerberg sia così potente e autonomo da poter silenziare un presidente degli Stati Uniti perché, in sintesi, non gli piace quello che pubblica. Oggi capita a Trump, domani potrebbe essere chiunque altro. In questi anni Facebook ha stabilito regole opache durante le campagne elettorali, ha anteposto i ricavi a qualunque etica, accettando di pubblicare annunci politici senza limiti e da ogni committente. Come ha ammesso un dirigente Facebook, nel 2016 le regole della piattaforma sugli annunci mirati (micro targeting) sono state decisive per la vittoria dei repubblicani.

Negli ultimi giorni di campagna elettorale 2020, Facebook e Twitter sono arrivati al punto di censurare un’inchiesta del New York Post sul figlio di Joe Biden perché dubitavano delle fonti del tabloid. La sostanza si è poi rivelata fondata, tanto che l’Fbi sta ora indagando Hunter Biden per i suoi affari con la Cina, ma in ogni caso non spetta agli ingegneri della Silicon Valley dare lezioni di giornalismo. Le piattaforme digitali, negli Stati Uniti, hanno sempre rivendicato di non essere responsabili dei contenuti che pubblicano grazie a una legge del 1996 che doveva garantire libertà di espressione nel nascente web. Ma invece di essere infrastrutture neutre, come la rete telefonica, abusano del loro potere.

Zuckerberg ha dimostrato di poter imbavagliare un presidente degli Stati Uniti in carica, forse nella speranza di ottenere favori da quello entrante, forse per il bene della democrazia, o per un’esibizione muscolare di forza. Poco importa: anche il peggiore dei presidenti, quale è senza dubbio Trump, ha alle spalle milioni di elettori. Zuckerberg risponde soltanto a sé stesso, visto che è amministratore delegato di Facebook ma anche primo azionista. Mentre Zuckerberg cerca facili applausi contro Trump, cambia in modo unilaterale le regole della privacy di WhatsApp, mettendo i dati del servizio di messaggistica a disposizione di Facebook. Esattamente quello che aveva promesso di non fare quando, nel 2016, aveva chiesto l’autorizzazione alla fusione. Zuckerberg è un pericolo per la democrazia assai maggiore di Jack Angeli, lo sciamano con le corna che ha assaltato il Congresso, e anche del suo mandante, cioè Trump.

© Riproduzione riservata