L’avvio della ripresa, nel 2021, aprirà anche una stagione nuova per l’economia italiana e per il paese? Questa è la domanda fondamentale che dovrebbero porsi oggi la politica e le classi dirigenti. Una stagione nuova significa che l’Italia finalmente torna a crescere al livello (o meglio) degli altri paesi avanzati.

In passato, alcune crisi di sistema sono servite a cambiare il modello di sviluppo, conseguendo proprio questo obiettivo. Altre invece hanno avuto il risultato opposto.

Dovremmo riflettere meglio su queste diverse esperienze, se ne traggono insegnamenti.

Scelte nelle ricostruzione

Alla fine dell’Ottocento, dopo anni che videro in successione lo scandalo della Banca Romana, la sconfitta di Adua, la strage di Bava Beccaris e quindi l’omicidio del Re, la nuova classe dirigente della Sinistra Liberale riuscì a rendere il paese più moderno e inclusivo, mentre lo agganciava saldamente all’economia internazionale in espansione  (beneficiandone con le rimesse degli emigranti, gli investimenti, il commercio e il turismo). Di contro, con l’autarchia fascista l’Italia si chiude, in un mondo a sua volta sempre più bellicoso e instabile.

Dopo la seconda guerra mondiale, la nuova classe dirigente repubblicana si pone, nuovamente, nelle condizioni di beneficiare al meglio dell’apertura internazionale.

Non si tratta solo del Piano Marshall, certo importante. Ma della scelta di partecipare sin dall’inizio e da protagonista alla costruzione europea, così come agli altri pilastri del nuovo ordine economico, da Bretton Woods (per la stabilità dei tassi di cambio e il controllo dei movimenti di capitali) al Gatt (per la progressiva liberalizzazione del commercio, poi Wto).

Al fondo c’è la scelta di scommettere su un modello di sviluppo fondato sulle esportazioni, opposto rispetto quello del fascismo (sostituzione di importazioni); affiancato dal ruolo attivo dell’intervento pubblico (allora abbastanza efficiente), che investiva nei settori strategici e nelle aree più arretrate.

Il debito sbagliato

Con la crisi degli anni Settanta, le classi dirigenti del paese (intese in senso lato) prendono però la strada sbagliata: scelgono un modello di sviluppo fatto di debito, inflazione e svalutazione, non adatto agli standard di una grande economia avanzata, che invece dovrebbe puntare sull’innovazione.

Negli anni Settanta e Ottanta, l’Italia continua a «convergere», ma in realtà sta ponendo le basi per il successivo declino.

Da notare che il pesante debito contratto in questo periodo, e che ci portiamo dietro ancora oggi, non è diretto al potenziamento dell’istruzione e della ricerca, né al miglioramento del welfare, né delle infrastrutture; ma, drogato anche dalla corruzione (e al Sud spesso dalla malavita), finisce per deteriorare ulteriormente le nostre istituzioni, oltre che l’etica del bene pubblico e dell’imprenditorialità (quel che in gergo si chiama «capitale sociale»).

Da allora non ci siamo mai veramente ripresi. Negli anni Novanta, lo scenario internazionale cambia di nuovo: con l’adesione all’euro e l’accentuarsi della competizione globale, le politiche di inflazione e svalutazione non sono più possibili, e forse non hanno nemmeno più senso di fronte alla concorrenza asiatica.

Dovevamo allora – finalmente –inaugurare un nuovo modello di sviluppo, fondato su investimenti in istruzione e ricerca, su politiche industriali in settori innovativi e di frontiera, sul miglioramento della pubblica amministrazione e della giustizia. Salvo alcune riforme dei governi di centro-sinistra degli anni Novanta, non siamo stati capaci di farlo. E il declino si è palesato via più nitido, a partire dal nuovo millennio.

L’errore dell’austerity

Dopo la crisi del 2008, una nuova austerity (e l’incapacità dell’Europa allora di avviare politiche keynesiane comuni) ha accentuato questo trend negativo, rendendo più difficile cambiare il modello di sviluppo, dato che questo richiede comunque risorse (che poi vanno investite bene).

 [6] Adesso si apre una fase nuova. Ma sarà bene cercare di far tesoro delle lezioni della storia. Quando si dice che le risorse del Recovery Fund devono servire a indirizzare l’Italia verso un nuovo modello di sviluppo (come peraltro ci chiede l’Europa), non si sta facendo retorica. Si dice anzi precisamente questo.

Abbiamo oggi l’opportunità di affrontare i nostri nodi strutturali, dalle disuguaglianze che frenano la crescita alla riforma e potenziamento dell’apparato amministrativo, dell’istruzione e della ricerca, e per investire su grandi settori tecnologici dove insieme al resto dell’Unione possiamo porci sulla frontiera più avanzata al mondo: la transizione energetica, l’innovazione digitale, la sanità.

La questione peraltro non riguarda solo il Recovery Fund: va allargata alle altre politiche europee (ad esempio il nuovo Quadro finanziario pluriennale 2021-2027, da cui arriveranno all’Italia altri 100 miliardi, di cui 44 per le politiche di coesione) e a quelle nazionali.

Ognuna delle diverse epoche della nostra storia corrisponde a una fase ben precisa dell’economia internazionale.

La cesura è spesso rappresentata da una crisi di sistema. Gli esiti dipendono dal modo in cui le nostre classi dirigenti e il Paese scelgono di rispondervi. Al lettore le conclusioni.

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