Non c’è memoria di una posizione di Mario Draghi trasmessa all’opinione pubblica sotto forma di indiscrezione, con formule del tipo “avrebbe detto ai suoi più stretti collaboratori”. Draghi parla dritto e sempre in forma ufficiale, non è per forza un pregio, è un fatto.

Nel suo discorso programmatico al Senato (17 febbraio) il presidente del Consiglio ha pronunciato la parola “stato” 15 volte. In 13 casi è stato un participio come quello che avete appena letto. Solo in una frase ha chiamato in causa lo stato: «Il ruolo dello stato e il perimetro dei suoi interventi dovranno essere valutati con attenzione. Compito dello stato è utilizzare le leve della spesa per ricerca e sviluppo, dell’istruzione e della formazione, della regolamentazione, dell’incentivazione e della tassazione».

La sua idea dell’intervento pubblico necessario a condurre l’economia fuori da una crisi profonda — e antica, la pandemia l’ha solo aggravata — non lascia spazio allo stato imprenditore. In un altro punto del discorso ha fatto una significativa specificazione: «Il governo dovrà proteggere i lavoratori, tutti i lavoratori, ma sarebbe un errore proteggere indifferentemente tutte le attività economiche». Il passaggio fa discutere, ma niente induce a identificare la protezione selettiva di attività economiche al finanziamento di singole imprese.

Adesso la teoria dovrà essere «validata dai fatti», come lo stesso Draghi auspica. Questo governo condurrà il paese verso una “nuova Ricostruzione” solo se tutti (politici, burocrati, imprese italiane e non, sindacati, lavoratori, turisti e mercati finanziari) ci crederanno. Segnali chiari e percepibili devono far capire immediatamente che l’aria è cambiata.

Un esempio: la Cassa depositi e prestiti (Cdp), braccio armato del governo, continuerà le nazionalizzazioni striscianti degli ultimi anni — con miliardi di euro pubblici spesi per miracolare le più disparate aziende acquistandone quote di minoranza, e senza mai dire perché? È ragionevole attendersi che Draghi fermi questa replica in salsa clientelare e fuori tempo dell’Iri, ma è necessario che lo faccia subito, oppure che altrettanto rapidamente spieghi perché la Cdp gli piace così.

L’ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio Riccardo Fraccaro (M5s) due giorni fa, in un’intervista al Sole 24 Ore, ha detto che per fare la mitica rete telefonica unica bisogna fondere la privata Tim con la Open Fiber che fa capo alla statale Cdp. Con la fusione, Cdp acquisirebbe azioni Tim in cambio del conferimento di Open Fiber e, sommandole con il 10 per cento che ha già rastrellato in Borsa spendendo un miliardo di euro dei risparmiatori postali, diverrebbe il primo azionista.

Alla domanda, ovvia, “perché i francesi di Vivendi, oggi primi azionisti di Tim con il 24 per cento, dovrebbero lasciarsi sfilare volontariamente il controllo della società telefonica?”, Fraccaro non risponde. Non ha concluso niente nei quasi tre anni passati a palazzo Chigi e appena ne esce parla a vanvera come tutta la classe dirigente di questo paese sventurato che da oltre dieci anni si balocca con pensose quanto inutili interviste sulla banda larga.

Sulla rete unica si deve e si può prendere una decisione in poche settimane. Se il governo non farà immediatamente una scelta, darà implicitamente a tutti il segnale che si continua come sempre: interviste, tavoli, ultimatum e penultimatum, memorandum of understanding a futura memoria, accordi con condizioni sospensive, fondi stranieri, consulenti e studi legali che si arricchiscono. E i giovani ingegneri continueranno a emigrare da un’Italia che fa loro schifo.

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