Le fabbriche restano aperte. Nessuno ha messo in dubbio, nell’estenuante discussione che ha accompagnato il rito di definizione dei contenuti dell’ultimo Dpcm, questo fatto. Eppure ricordiamo ancora il dibattito intorno alla decisione del governo nel marzo scorso di utilizzare i codici Ateco per individuare i settori essenziali, che potevano continuare ad operare. Questa seconda ondata non ha certo una portata inferiore, dunque cosa è cambiato?

Sicuramente la situazione economica rende oggi ancor più insostenibile rispetto alla primavera una chiusura forzata dell’industria e, dal punto di vista industriale, il lockdown italiano ha avuto una estensione e una durezza molto maggiori di ogni altro paese europeo.

Ci sono poi alcuni dati che potrebbero aver convinto il governo a tenere aperte le industrie. L’ultimo rapporto annuale dell’Inps fornisce dati sui contagi nel settore manifatturiero: il contagio dei lavoratori di questi settori è stato in generale molto basso tanto che la differenza pre e post misure dei diversi Dpcm è stata quasi nulla.

Molte industrie sono rimaste aperte in virtù dalla scelta di lasciare ai prefetti la valutazione delle richieste unilaterali delle imprese in merito alla riapertura di attività «che sono funzionali ad assicurare la continuità delle filiere» rappresentate dai codici Ateco ritenuti essenziali.

Soggetti, le prefetture, per i quali erano più che legittimi i dubbi in merito alla loro capacità di valutazione preventiva di quali imprese fossero davvero essenziali perché inserite all’interno di filiere produttive più ampie. E infatti si è proceduto poi con il criterio del silenzio-assenso: tutte le imprese che chiedevano deroghe le vedevano automaticamente accettate, anche a causa della quantità ingente di domande pervenute in breve tempo. 

Ciononostante, tante fabbriche hanno chiuso per alcuni periodi e questo ha sicuramente inciso sulla performance del Pil italiano per il 2020 che proprio in questi giorni la Commissione europea ha posizionato al penultimo posto prima della Grecia.

I protocolli con i sindacati

C’è un ulteriore elemento che è rimasto sullo sfondo ma che ha contribuito a non mettere neanche in discussione la chiusura delle fabbriche durante la seconda ondata. Si tratta delle migliaia di protocolli sottoscritti da sindacati e imprese nelle singole aziende e che hanno regolato, e tutt’oggi regolano, lo svolgimento delle attività lavorative per garantire allo stesso tempo continuità nella produzione e sicurezza dei lavoratori.

Sono documenti che regolano, ad esempio, distanziamenti, numero massimo di persone, utilizzo dei dispositivi di protezione e altro ancora. L’idea maturata (con una precisa volontà politica) negli ultimi anni di considerare le parti sociali e i corpi intermedi come realtà inutili e vetuste dovrebbe essere ampiamente rivista alla luce di tutto questo.

Oggi è molto raro oggi sentire rappresentanti sindacali chiedere una nuova chiusura delle fabbriche proprio perché consapevoli che il mito secondo cui salute e produzione sarebbero inconciliabili è caduto di fronte all’impegno di entrambe le parti nel costruire le condizioni perché questo non fosse necessario.

Questo dovrebbe farci guardare in modo diverso al ruolo che le parti sociali oggi possono avere non solo nel contenimento del contagio ma anche nel sostenere i fragili equilibri economici e sociali all’interno di una fase in cui, anche a fronte di molte attività produttive aperte, l’incertezza è elevata, i consumi deboli e le produzioni ancora fortemente rallentate.

La lezione dell’altra crisi 

L’esperienza della crisi del 2008 ci ha mostrato, anche se si tende a non ricordarlo, come siano stati proprio i contratti aziendali ad aver tenuto in piedi buona parte del tessuto produttivo. Contratti, che nelle ultime settimane stanno iniziando a tornare, in cui sindacato e imprese rinunciano rispettivamente a qualcosa per tentare di salvaguardare la stabilità occupazionale.

Allo stesso modo il “Fondo nuove competenze” introdotto dal governo per coprire il costo delle ore di lavoro in cui si svolgeranno attività formative necessiterà del ruolo centrale di un accordo collettivo aziendale o territoriale sottoscritto da sindacati e imprese.

Non si tratta di certo di assolvere le parti sociali dai tanti limiti che non mancano di manifestare, quanto piuttosto provare a rivolgere lo sguardo non solo alla dimensione nazionale quanto alle esperienze che avvengono nei territori e nelle singole aziende. Si potrebbero scoprire risorse e esempi utili per tutto il Paese.

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