El hombre del partido es Paolo Rossi. Non era cosa usuale, all'epoca. Decretare il migliore in campo e farlo a partita in corso. Oggi è normale, viene pure sollecitato da quella pantomima di democrazia del telecomando che rende utenti di servizio multimediale e volenterosi numeri da marketing venduti agli inserzionisti pubblicitari. Ma quel giorno, 8 luglio 1982, era cosa straordinaria. Come straordinario era il momento storico, e il momento di squadra, e il momento personale. Il momento di Paolo Rossi, baciato da una grazia speciale.

Barcellona, Stadio Sarrià, la partita giocata nella fascia oraria che per la mitografia scenica ispanica ha un significato speciale: soltanto un quarto d'ora dopo las cinco de la tarde, quando il calcio si fa arena. In quell'arena del Sarrià una squadra fin lì amorfa è diventa invincibile nel giro di una manciata di giorni. E dentro quella squadra invincibile il centravanti spaurito diventa el hombre del partido e del destino. Pablito, che segnando una doppietta contro i polacchi tocca quota 5 gol nel mondiale di Spagna e trascina la nazionale azzurra di Enzo Bearzot alla finale di tre giorni dopo contro la Germania Ovest, al Santiago Bernabeu di Madrid.

Qualcuno, quando le ombre lunghe del pomeriggio avevano coperto il forno del Sarrià, decise di rendere omaggio all'uomo che in pochi giorni aveva saputo riscattare se stesso, simbolo di una squadra che stava andando a prendersi il mondo dopo averci litigato a muso duro. E mandò sul tabellone luminoso il messaggio che accese il delirio dello stadio. Ma perché partire da lì per raccontare Paolo Rossi, nel giorno del suo addio alla vita?

Quattro anni, un'epoca

In realtà si potrebbe raccontarlo in mille altri modi, Paolo Rossi. Toscano atipico, antidivo a dispetto di una notorietà schiacciante, centravanti di destrezza in un'epoca che agli uomini d'area richiedeva una propensione gladiatoria per mischia & rissa. Fuori schema in tutti i sensi, underdog per vocazione. Capace di scalare i vertici, cadere rovinosamente, risalire in vetta più forte di prima. E andare infine a collocarsi nella dimensione metropolitana del calcio italiano che con ogni evidenza gli stava troppo larga e lo metteva a disagio. Torino sponda bianconera, e poi Milano sponda rossonera. Lui che era diventato grande nel piccolo Lanerossi Vicenza, e dentro quella dimensione periferica del calcio era stato trattenuto quasi a forza dalla hybris di due presidenti che vollero sfidare il potere economico e sportivo della Juventus senza averne i mezzi.

Dapprima Giussy Farina, che per tenerlo a Vicenza dopo il biennio d'oro (promozione in A nel 1976-77 e l'incredibile secondo posto nonostante lo status di matricola nel 1977-78) compì la follia di valutarlo 5 miliardi di lire, quando si trattò di risolvere “alle buste” la comproprietà con la società bianconera. E poi Franco D'Attoma del Perugia, squadra che dopo aver concluso anch'essa un campionato al secondo posto dietro al Milan della stella nel 1978-79 volle quel centravanti per provare l'assalto definitivo al vertice.

Anni folli, privi di mezze misure. La prima parte di un quadriennio cominciato nel 1978 e culminato nel 1982. Due mondiali nel segno dell'ispanofonia che forgiarono il mito di Pablito. Argentina 1978, il mondiale sporco di sangue e usato come strumento di propaganda dalla dittatura dei generali. Poi Spagna 1982, il mondiale disputato in un paese che dalla dittatura era appena venuto fuori, ma ancora non sapeva fino a che punto, visto il golpe da operetta del tenente-colonnello della Guardia Civil, Tejero, che il 23 febbraio 1981 entrò pistola in pugno nelle Cortes urlando “coglioni” in faccia a un'intera classe parlamentare. E a quei due mondiali approdava la nazionale azzurra di un paese che veniva fuori dai Settanta col fardello di una crisi economica pesante e un livello di violenza politica giunto all'apice, e accedeva agli Ottanta inconsapevole d'approssimarsi a un nuovo boom economico e a un'inattesa pacificazione sociale.

La vittoria della nazionale azzurra al mondiale spagnolo segnò il rito di passaggio verso una nuova modernità italiana. Ma Pablito non ebbe nemmeno modo di accorgersi che le sue gesta calcistiche si muovessero entro questo sfondo storico-sociale, e che contribuissero a cambiarlo. Era troppo impegnato a vivere i suoi tumulti. Le glorie d'Argentina seguite dal trauma della retrocessione del Lanerossi Vicenza nella stagione successiva, il passaggio a Perugia drammaticamente interrotto dalla vicenda del calcioscommesse e dalla squalifica di due anni. Anche in quel caso, altri tempi. La Giustizia sportiva era all’epoca una Santa Inquisizione cui si riconosceva legittimazione indiscussa. Sarebbe stato necessario arrivare al 2006, col passaggio di Calciopoli, per vedere trasformare la Procura federale e i tribunali della Figc in un bersaglio dei peggiori risentimenti da partigianeria calcistica. Da un eccesso all’altro. Ma nel 1980, pieni Anni di piombo, se da un processo sportivo fosse sortita l’indicazione di infliggere pene corporali ai condannati, nessuno avrebbe eccepito.

Ecco la parte più triste nella storia di Pablito. Quei due anni di vuoto causati da un'accusa che ancora quarant'anni dopo suscita perplessità. Il limbo e l'attesa di ritornare in campo con la maglia della Juventus senza sapere se potesse essere ancora lui. E poi l'avvio stentato del mondiale spagnolo, il freddo d’inizio estate a Vigo che si trasforma in gelo nei rapporti con la stampa, e al centro di tutto ancora lui: l'eroe annunciato e preteso che però stentava a prendersi quei panni, perciò diventava candidato capro espiatorio per quando la nazionale avesse concluso l'avventura senza gloria.

Eroe per sé e per gli altri

E invece l'eroe tornò quando avevano smesso di aspettarlo. La tripletta al Brasile, con quell'ultima zampata nel mischione da calcio d'angolo. Il resto del mondo poteva avere il dubbio, nell'immediato, su chi avesse piazzato il tocco di sveltezza. Ma gli italiani no. Perché quelli erano i gol di Pablito. L'arte della segnatura come istinto del cogliere l'attimo e beffa suprema alla truce arte del marcamento a uomo.

Li ha incontrati tutti, Paolo, gli stopper di un'epoca in cui macellare l'attaccante lanciato a rete era dovere d'ufficio e costava al difensore nemmeno l'ammonizione. «Cos’altro potevo fare, signor arbitro, lasciarlo andare in porta? Mi dica lei». Ma lui li beffava rubando il tempo, con una capacità di sintonizzarsi sull'”attimo dopo” che gli consentiva d'essere lì dove giungeva la respinta, o il rimpallo, o la distrazione. Fare gol come se fossero tutti facili, come fosse giocare da soli a infilzare la porta vuota. E farlo non già, come adesso, lucrando da avvoltoi sul malfunzionamento delle linee difensive che vanno a caccia del fuorigioco. Nossignori, lui si trovava solo nelle mischie, sereno e tranquillo nel pieno del caos.

L'uomo dei gol di rapina, come li chiamavano un tempo. Le situazioni sghembe e di rinterzo dove tutti mollano un istante di concentrazione. Facili a vederli, ma terribilmente complicati da intuire e catturare. Grazie a quei gol “facili” Paolo Rossi ha riabilitato se stesso. E una nazionale, ritornata a vincere il mondiale nell'edizione che nessuno avrebbe immaginato. E un Paese che d'improvviso si trovava sul tetto del mondo in modo preterintenzionale, senza capire come diamine ci fosse arrivato. E infine tutti quei colleghi che come lui erano passati nel tritacarne del calcioscommesse 1980, e che grazie alla vittoria mondiale marcata dai suoi gol poterono giovarsi dell'amnistia conseguente. Liberi tutti per merito di un uomo che la libertà di tornare a giocare se l'era ripresa dopo avere scontato per intero la pena.

Lui, Diego, il Sarrià

Poi sono arrivate la Juventus, e il Milan, e infine il Verona. Il picco della carriera, poi il lento declino che colpisce anche i Palloni d'Oro come lui. E un post-carriera che lo ha visto lontano dal mondo del calcio, riavvicinato soltanto da commentatore televisivo. Sempre con tono garbato, senza quella spocchia da io-sono-campione-del-mondo-millenovecentottantadue che altri portano in giro come una pochette.

E adesso che ci lascia non si può fare a meno di notare la vicinanza temporale con un altro addio. Quello di Diego Armando Maradona, avvenuto quindici giorni prima. Due addii troppo pesanti per arrivare in così poco tempo. Due addii che a metterli insieme non si può non correre con la memoria a quel giorno del Sarrià, 29 giugno 1982. Italia e Argentina che si confrontano, il giovane Diego ancora non pronto per essere il più grande di sempre e il ritornante Paolo che sta risalendo dalla fossa. E intorno a loro uno stadio che ospita due fenomeni non ancora convinti di esserlo. Non furono hombres del partido. Lo sarebbero diventati, e anche molto di più.

Adesso non c'è più Diego e non c'è più Paolo. E dal 1997 non c'è più nemmeno il Sarrià. Quante cose ci stiamo perdendo.

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