E se, in tema di candidature alle europee, sul quale, da tempo, ci si esercita in calcoli e tatticismi, regolandosi sulla base di ciò che si orientano a fare partner o avversari, ci si ispirasse a un criterio semplice e lineare? Quale? Quello suggerito da Gianfranco Pasquino: sottrarsi, per una ragione di serietà, alla suggestione delle candidature truffaldine, mero specchietto per le allodole, che offendono l’intelligenza degli elettori.

Facciano ciò che credono gli altri, quelli che concepiscono le elezioni al parlamento europeo come un sondaggio, un’occasione per contarsi e per contare in casa nostra, nel rapporto tra i partiti e dentro i partiti. Questo il mio (ingenuo?) auspicio. Mi piacerebbe lo facessero tutti.

Ma, a fortiori, è ragionevole attendersi che lo facciano le formazioni politiche convintamente europeiste. Le quali, per statuto, per cultura, per programma, dovrebbero scommettere sulla missione cruciale assegnata al parlamento europeo nel quadro delle istituzioni comunitarie. Con l’impegno, preminente su tutto, di portare in esso una squadra di parlamentari autorevoli, competenti, che a esso in via esclusiva si dedichino.

Sembra che Giorgia Meloni sia orientata in senso contrario, ovvero a fare da capolista in tutte e cinque le circoscrizioni. Mi piacerebbe che Elly Schlein facesse l’esatto opposto. Per le suddette ragioni di principio, ma anche per un’ulteriore ragione. Cioè per mettere a verbale di disporre di un personale politico, civico e di area che, come si è visto, a destra difetta.

Contestualmente, rimarcando come la soluzione opposta adottata dalla premier è dettata appunto da tre motivi: il vistoso difetto di qualità e di quantità della classe dirigente di FdI; lo stesso profilo di Meloni assai più conforme a quello di capo partito che non a quello di leader di governo; una concezione personalistica del potere icasticamente espressa nella riforma del “premierato assoluto”.

Ma se la segretaria Pd volesse, come io mi auguro, adottare una linea di comportamento limpida e coraggiosa – direi sfidante – dovrebbe mostrarsi determinata anche nel reagire all’assedio dell’affollata nomenclatura del suo partito che ambisce a candidarsi in posizioni di rilievo.

Non è un mistero che tale assedio sia tra i mali endemici del suo partito e che la sua vittoria alle primarie sia stata originata dalla fiducia che le riuscisse di sottrarsi alla presa soffocante di un ceto politico professionale obeso. Un ceto che, anche in questa congiuntura, si segnala per un singolare attivismo nell’invocare la cancellazione di un limite ai mandati di sindaci e presidenti di regione o che, appunto al modo di ripiego, chiede di essere “sistemato” all’Europarlamento.

Del resto, non le riuscirebbe di soddisfare l’appetito di tutti. Merita notare come la stessa discussione interna al Pd circa l’opportunità o meno che Schlein si acconci a fare da capolista ovunque registri opinioni tutte pressoché “interessate”, condizionate da calcoli personalistici. Sino al limite di chi le suggerisce di fare sì da capolista, ma non laddove aspira a farlo lui.

La più bislacca delle soluzioni, priva di quale che sia senso politico. La leader Pd può sottrarsi a tale assedio solo con la mossa del cavallo. Ovvero, cavandosi fuori lei da ogni sospetto di personalismo, e aprendo a figure autorevoli della società e della cultura, idonee a portare un reale contributo in sede europea. Tra i tanti suoi limiti, il Pd, più di altri, ne sono convinto, ha la possibilità di reperire personalità esterne che rispondano a quei requisiti.

Con due risultati: dare prova di serietà investendo davvero su una qualificata rappresentanza impegnata full time all’Europarlamento; e, contestualmente, smentire una prassi consolidata che vede nell’approdo a Strasburgo un premio da fine carriera.

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