Non dobbiamo essere ingenui: come e più di lui ci controllano i grandi magnati. Il proprietario di X offre qualcosa senza che vi sia alternativa: dovevamo accorgercene prima. Destre e sinistra europee competono per trovare un nuovo modello
Davvero pensiamo che Elon Musk sia un caso unico, perché interviene a gamba tesa negli affari interni di altre nazioni, si esprime con veemenza e non manca di far conoscere la propria (magari assurda) opinione? La premier Giorgia Meloni ha puntato il dito su George Soros che, prima di diventare il paladino dei processi democratici e della cancel culture, scommise sul fallimento della lira nel 1992. Ma non dobbiamo essere ingenui.
Non c’è solo Musk, che come rivela il New York Times martedì è stato citato in giudizio dalla Security and Exchange Commission (l’autorità di regolamentazione finanziaria statunitense) per l’acquisto di Twitter – oggi X –, con l’accusa di aver violato le leggi sui titoli accumulando azioni nella società senza presentare la notifica appropriata alla Sec e acquistandole così a un prezzo artificialmente basso. Da sempre, infatti, i grandi magnati del capitalismo americano hanno influenzato pesantemente Washington e di conseguenza la politica mondiale e il nostro paese.
I poteri forti
È saggio rammentare sempre di chi sono i veri poteri forti al mondo. Solo per fare qualche esempio (senza pretesa di essere esaustivi) ricordiamo i grandi magnati del petrolio Usa tra i quali ad esempio la famiglia Rockefeller (Standard Oil Company), i grandi banchieri come John P. Morgan e i suoi discendenti che dominano la finanza dal tempo dell’era dorata (Gilded Age) e di cui molte banche e fondi portano ancora oggi il nome; oppure Jay Gould magnate delle ferrovie, fulgido esempio dei “robber barons” che monopolizzarono l’economa americana a fine Ottocento; Henry Ford e il settore automotive, infine Andrew Carnegie e i produttori di armi.
Oggi si tratta soprattutto di banchieri e gestori di fondi di investimento, dal momento che l’economia è totalmente finanziarizzata: contano personalità conosciute come Warren Buffett ma ancora di più quelle poco note al grande pubblico come Larry Fink di BlackRock; John C. Bogle di Vanguard oggi deceduto; Abigail Johnson di Fidelity; Yie-Hsin Hung di State Street Global Advisors; James P. Gorman di Morgan Stanley; JP Morgan Chase fondata dal mitico Aaron Burr (uno dei padri fondatori degli Usa di cui fu vicepresidente) e ora gestita da Jamie Dimon e infine Goldman Sachs di cui l’amministratore delegato è David Solomon.
Tutte queste sigle (note e meno note) rappresentano i maggiori fondi e banche di investimento al mondo, che rastrellano risparmio e valore finanziario molto più alti di un gran numero di nazioni. Tanto per fare un esempio il patrimonio di BlackRock ammonta a oltre 11.000 miliardi di dollari, quattro volte il valore del Pil italiano.
Fondi e banche governano il mondo di nascosto e rappresentano l’apice di quella Superclass (di circa 6000 persone come descrive David Rothkopf nel suo libro dallo stesso titolo) che oggi nel mondo decide ogni cosa. Tra costoro i finanzieri sono i più numerosi assieme agli imprenditori. I politici che contano globalmente sono una sparuta minoranza.
Massimiliano Volpi tratteggia la situazione attuale –alquanto preoccupante per l’Italia – nel suo esplosivo I padroni del mondo. Come i fondi finanziari stanno distruggendo il mercato e la democrazia (Laterza 2024), nel quale illustra come tali «fondi sono penetrati nelle società pubbliche a cui sono affidate la proprietà e la gestione delle reti vitali per la sovranità di un paese».
Liberismo e democrazia liberale
Ormai è evidente quanto l’idea di un mercato libero rappresenti una favoletta o un’impostura: la globalizzazione stessa, iperliberista o turboliberista, si è incaricata di dimostrarcelo. Pochi sono rimasti i veri “pro market”; moltissimi i “pro business”.
Come prova basta guardare alle due grandi guerre (Ucraina e Gaza): non hanno nemmeno scalfito i guadagni della finanza e le borse hanno continuato come se nulla fosse. Fondi e banche sono rimasti sicuri dei propri guadagni come se stessero in una realtà parallela.
Pankaj Mishra, noto scrittore e critico letterario indiano che si è interessato di tali fenomeni, sostiene che occorrerebbe «separare il liberismo dalla democrazia liberale per salvarla».
«Non dovremmo», prosegue, «rispondere ad un autocrate come Putin che dice che il liberalismo è finito. Vi sono due liberalismi in conflitto tra loro: economico e politico. La crisi odierna se l’è creata il liberalismo da solo: occorre ora una serrata critica al liberismo economico».
La comunicazione
Due riflessioni emergono da tale stato di cose. La prima è che la vera differenza che esiste tra i grandi maneggioni della finanza globale e gente come Elon Musk è la comunicazione: i primi preferiscono tacere e celarsi; Elon Musk – come alcuni dei suoi colleghi magnati dei social – preferisce giocare allo scoperto. Non deve sfuggirci quindi che, se Musk è un pericolo come sostengono alcuni, molto di più lo sono coloro che si nascondono dietro i listini delle borse.
La seconda è che Elon Musk è comunque un industriale che costruisce qualcosa di reale, anche se le nostre opinioni in materia di monopolio possono renderci legittimamente sospettosi. La finanza ha creato un’immensa bolla che non ha più nulla a che vedere con l’economia reale e che può inghiottire stati, nazioni e imprese in un solo boccone.
Anche Musk deve vedersela con tali tycoon della finanza che potrebbero schiantarlo in borsa in ogni momento, se solo volessero o vi trovassero un qualche interesse. Donald Trump conosce bene questo mondo e se ne è servito lungo tutta la sua lunga carriera imprenditoriale, riuscendo a trasformare debiti in reddito (il suo vero know how: i veri debiti – quelli che ti fanno fallire – valgono solo per la classe media e per i poveracci).
Imparare a innovare
Come reagire dunque? Certamente l’innovazione tecnologica spaventa i contemporanei: oggi è l’intelligenza artificiale come ieri erano i telai a vapore. Inoltre gli imprenditori visionari danno sempre all’inizio l’impressione dell’azzardo. In Italia siamo scottati da tanti imprenditori che hanno distrutto le proprie imprese solo per far soldi e non pagare le tasse, senza lasciare nulla al territorio, fuggendo o vendendo all’estero.
L’esempio di John Elkann è solo l’ultimo della serie, anche se forse tra i più dolorosi tenendo conto di quanto lo Stato ha dato alla Fiat nei decenni. Magari queste cose andrebbero spiegate a Musk per fargli capire l’Italia. Il governo italiano è in una strettoia difficile: come muoversi tra la finanza globale (che controlla il nostro debito e lo garantisce) e la salvaguardia dei nostri asset rimanenti (e non diventare una colonia)? Come difendere la democrazia dai monopoli rispondendo alle lamentele della classe media che sente il morso della crisi da globalizzazione?
In fondo salvare il liberalismo non è solo questione di diritti ma molto di più: ne va dell’indipendenza nazionale, quella dai “veri poteri forti”, e della protezione della nostra manifattura. L’Italia è esattamente il contrario di ciò che va per la maggiore oggi: finanziariamente è ben poca cosa; da un punto di vista trasformativo e produttivo una potenza; ha un sacco di debiti e pochissima liquidità ma tanta manifattura da esportazione.
La risposta popolare-populista in economia può servire per un inizio di ripartenza ma poi vengono al pettine i veri nodi. Va cercato qualcosa oltre il turboliberismo ma ancora nessuno l’ha trovato. Cambiare senza strattoni necessita di una visione nuova: destre e sinistre occidentali competono per trovare tale soluzione. Ridurre il debito è solo una parte della storia: i fondi si remunerano mediante esso con tassi alti (pagati dai cittadini).
Potremmo paradossalmente anche dire che – all’opposto – il debito pubblico ci protegge dall’essere “mangiati” in un solo boccone (se fossimo senza debito saremmo molto più appetibili…). Ciò che interessa il ceto medio italiano (colonna vertebrale che tiene in piedi il paese) è un sistema pubblico efficace, che funzioni, che sia finanziabile (sanità, educazione, università e ricerca) ed eviti che i nostri figli scappino all’estero. La questione migratoria va letta in tale prospettiva così come quella della ricerca scientifica: senza innovazione nostrana dobbiamo per forza ricorrere a Musk.
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