L’Unione europea sta faticosamente cercando risposte allo shock energetico ed economico causato dall’invasione russa dell’Ucraina. Nei giorni scorsi sono filtrate indiscrezioni su una nuova mutualizzazione di debito, dopo il Recovery Fund. Tutto è poi rientrato nel cono d’ombra dei negoziati tra paesi, viste le evidenti divergenze pubbliche sul tema.

Tra i rumours, c’era anche l’ipotesi di emissione di debito comune per finanziare un sostegno simile a quello del programma SURE, che in pandemia ha concorso alla conservazione dei posti di lavoro con prestiti a tassi vantaggiosi perché ottenuti dalla Commissione Ue grazie alla tripla A che il suo debito – per ora - riesce a spuntare.

Ma pochi sembrano aver colto la difficoltà di disegnare un sostegno finanziario comune in questa contingenza.

Al momento, nessun paese ha perso l’accesso al mercato dei capitali né ha sperimentato rilevanti deterioramenti delle condizioni a cui raccoglie debito. Gli spread, in altri termini, sono poco mossi. Già questa considerazione blocca l’eventuale esplorazione di questa strada di debito comune.

C’è poi il costo dell’energia. Porre un tetto al prezzo del gas e indennizzare i paesi della differenza con quello globale di mercato? Ma come verrebbe allocato l’onere sui singoli partecipanti? In base al Pil? Ai consumi energetici? Ad altro?

In Italia, come da attese, è già iniziata la richiesta di usare questi strumenti “magici”, in cui qualcuno paga a nostro beneficio. Dopo il Recovery Fund spacciato  da molti come clamoroso successo negoziale del nostro paese, la politica si è già rifugiata in questo ricco filone di pensiero magico.

Continua a sfuggire che è impossibile pensare a sussidi che facciano scomparire il danno dello shock di costo. Ogni intervento deve avere logica limitata e parziale. Se così non fosse, verrebbero iniettati stimoli in presenza di un calo di offerta e il risultato sarebbe ulteriore inflazione.

Dopo il Pnrr 

Credere che basti mettere in comune il debito per raggiungere la felicità è ormai la costante del nostro cosiddetto europeismo. Una visione associata alla convinzione che basti fare debito, o magari stampare moneta, per sopperire anche alla mancanza di offerta di beni. La realtà è differente.

Si ipotizza (lo ha fatto il vicepresidente della Commissione, Valdis Dombrovskis) di dirottare parte dei fondi del Recovery non ancora destinati. Non certo per sussidi correnti ma per investimenti in Difesa ed energia. Ma il nostro paese è andato all-in sul Pnrr, impegnando da subito tutte le sovvenzioni e i prestiti e aggiungendo anche una trentina di miliardi “fuori sacco”. Decisione mossa dal desiderio di invertire un declino fatto di pessima programmazione e dalla irredimibile propensione a privilegiare la spesa corrente a quella per investimenti.

Una spesa scadente che ha prodotto nel tempo il progressivo azzeramento dei margini per manovre fiscali anticicliche. Risultato che, tra le altre cose, ci mette a svantaggio competitivo negli aiuti di stato, che ora consentiranno a paesi meno fragili del nostro di proteggere le proprie industrie e accompagnarle verso aggregazioni continentali strategiche.

Attendiamo quindi le decisioni comuni europee, frutto di compromessi e difesa di interessi nazionali. Quegli interessi che gli italiani proprio non riescono a comprendere, da tempo immemore, preferendo sussidiare consumi e invocare miracolose mutualizzazioni da cui essere beneficiati, per motivi imperscrutabili.

© Riproduzione riservata