Da mesi divampa nel Pd e intorno a esso la contesa sulle liste per le europee. I media ci inzuppano il pane, ma, va detto, i protagonisti attivi e passivi – cioè gli esponenti del Pd – ci mettono del loro nel conferire alla questione un rilievo esorbitante. Comunque, sia lecito osservarlo, da posporre a una discussione pubblica all’altezza delle sfide di questa stagione.

Ovvero il mondo in ebollizione, l’Europa vistosamente inadeguata, gli accresciuti poteri dell’Europarlamento. Diciamo così: l’Europa che vogliamo, l’Europa che sarebbe assolutamente necessaria.

Il sovrappiù di attenzione alle liste si spiega con un dato endemico e strutturale del Pd che si cela dietro l’enfasi sulla cosiddetta esigenza di valorizzare la sua classe dirigente: un ceto politico professionale sovrabbondante, la contesa tra le cordate quando ci si deve dividere i posti al sole, la pressione di amministratori in uscita e alla ricerca di collocazione. E tuttavia, convengo, anche la confezione delle liste non va trascurata. Quali i criteri?

Pancia a terra

Il primo lo ha più volte suggerito Prodi sulla scorta della sua esperienza a Bruxelles: propiziare l’approdo al parlamento Ue di una squadra che vi si dedichi a tempo pieno e pancia a terra, che auspicabilmente vanti qualche competenza ed esperienza nel campo della politica estera e segnatamente europea, con i suoi complessi dossier.

Anche in questa prospettiva ha senso l’apertura a personalità esterne che il Pd, più di altri, in ragione della sua collocazione e tradizione europeista, ha la possibilità, se lo vuole, di reclutare. Non è poi da trascurare, né, tantopiù, da colpevolizzare, l’esigenza di conferire alla rappresentanza a Strasburgo un profilo politicamente coerente con quello del Pd in linea con la sua nuova leadership.

Un solo esempio: sarebbe sorprendente se si stabilisse una sorta di ostracismo verso il mondo pacifista. Se è vero come è vero che l’identità politica del partito si definisce anche in sede europea, nel quadro e nel rapporto con le famiglie politiche ivi operanti.

Più politica

L’Europa ha bisogno di più politica e meno tecnocrazia. Certo, da non sottovalutare il tema della rappresentanza femminile, ma esso rischia di essere mal posto ed equivocato quando lo si intreccia con quello – altro – dell’equilibrio negoziale tra le correnti.

Anche se è questione urticante di norma esorcizzata, non si può ignorare che, nella vicenda del Pd, vi sono solo due eccezioni di donne politicamente attrici in proprio, non affiliate a un capo corrente maschio, ovvero Bindi e Schlein. La quale, pure va detto, nella sua ascesa alla leadership, ha goduto del sostegno di una strettissima minoranza di donne del partito, in maggioranza schierate con il maschio favorito.

Vi sono poi il “corso di recupero” per chi ha mancato l’elezione al parlamento nazionale e la menzionata, affollata corsa degli amministratori in scadenza di mandato. Pur con l’apprezzamento dovuto alla loro azione a servizio delle loro città o regioni, è tutto da dimostrare che essi siano i più attrezzati a svolgere un compito affatto diverso.

Infine, tra le regole più convenzionali ma da non disprezzare, c’è quella del rispetto del limite dei mandati. Ho perso il conto, mi pare che il Pd un tempo ne contemplasse tre. Ma ho l’impressione che spesso quel limite lo si sia aggirato. Eppure un senso ancora lo avrebbe: trasmettere l’idea che la politica è, di regola, un servizio a termine, dopo il quale si torna alla propria professione. Avendola.

Anche per mostrare ai giovani che si affacciano alla politica – e da incoraggiare, sia chiaro – che tuttavia è buona cosa acquisire una stabilità economica e professionale che li renda liberi, che li metta al riparo dalla dipendenza da padrini politici. Ne va della loro vita e della qualità della politica.

Platone suggeriva di dedicarsi alla politica solo nel pieno della maturità. Forse esagerava. Ma quel monito mi tornò alla mente quando centinaia di giovanissimi del M5s approdarono al parlamento e (paternalisticamente?) la cosa mi fece riflettere.

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