La schiacciante vittoria di Riad (119 voti) contro Roma (solo 17) e Busan (29) necessita di una riflessione approfondita. Cosa non ha funzionato? Non il contenuto visto che il progetto romano era considerato migliore (anche dal bureau international des expositions Bie), sia dal punto di vista contenutistico che della sostenibilità. Nemmeno nel team che ha lavorato molto e bene, ha girato il mondo, ed è rimasto coeso fino alla fine offrendo un raro esempio di impegno di sistema.

Né nel sostegno politico che è stato bipartisan e compatto. L’idea era di proseguire sulla via tracciata dall’Expo Milano2015: offrire un ambito accessibile a tutti i paesi dove confrontarsi sui problemi reali della vita del pianeta. In sintesi: dal cibo di Milano ai territori di Roma, qualcosa legato alla vita quotidiana della gente dove immaginare insieme il futuro per le aree più diverse, città, campagne, zone agricole e industriali, isole, deserti, foreste, oceani ecc.

Molte delle ultime Expo (come sarà anche quella di Riad) sono ipertecnologiche e inarrivabili per la gran massa dei paesi del mondo: Roma offriva un’opportunità a tutti. Roma non ha certo bisogno di farsi pubblicità: con Expo voleva proporre un ambito di dialogo su temi concreti: una Expo di tutti.

La campagna si è concentrata sullo spirito di partnership. Era ben noto che sauditi e coreani avevano più denari: in cambio Roma proponeva una collaborazione che sarebbe durata nel tempo. Roma ha scommesso sui “valori”: convivenza, partecipazione, dialogo (per non parlare di democrazia e diritti umani), terreno che si è dimostrato inconcludente. Tale sforzo di immaginare una Expo innovativa è apparso oscurato dal mercato dei voti, fatto di sostegni finanziari e infrastrutturali.

I sauditi non hanno badato a spese (190 milioni per la sola campagna; miliardi in promesse di opere e finanziamenti ai paesi votanti; oltre circa 8 miliardi per la realizzazione dell’expo stessa). I coreani hanno investito 130 milioni solo per la campagna. Roma non ha tali somme né potrà mai averne. Non bisogna scandalizzarsi: da tempo le Esposizioni Universali sono un foro in cui scambiare i voti contro cooperazione, progetti, aiuti.

Su questo terreno i nostri concorrenti erano favoriti, con la differenza che l’Arabia Saudita si è mossa come Stato mentre la Corea principalmente mediante i propri colossi imprenditoriali (Daewoo, LG, Samsung ecc.). Tuttavia ciò che è cambiato è stata la magnitudine delle transazioni: l’aspetto di “mercato” delle Expo si è ingigantito fino a far scomparire totalmente il merito dei progetti – per nulla presi in considerazione – e dare libero sfogo ad ogni possibile logica di “voto di scambio”.

Bie a occhi chiusi

Il Bie non ha frenato tale involuzione, rischiando ora una totale degenerazione dell’intero processo decisionale. Secondo qualcuno c’è stata anche una sottile opera intimidatoria, del genere “se non mi voti ci saranno conseguenze”. Su tutto questo sommessamente si può consigliare al Bie di darsi qualche regola in più per evitare la deriva in corso.

Se le cose stavano così perché mantenere la partecipazione? È una domanda che il comitato promotore si è fatto varie volte nel corso dei quasi due anni di campagna, consultandosi con i due governi in carica (Draghi e Meloni). Ritirarsi tuttavia non sarebbe stato molto più onorevole e si contava sul fatto che gli stati non si sarebbero lasciati trascinare tutti su tale piano inclinato e che molti avrebbero reagito.

Così non è stato nemmeno per l’Europa: tra i nostri alleati c’è chi ha scambiato il proprio voto contro l’acquisto di aerei militari; chi in cambio di un’impresa di semiconduttori; chi ancora con la coppa mondiale di calcio e così via. Com’è noto la bulimia di Riad è senza limiti.

Qui si giunge a quello che probabilmente è il vero cuore del problema e della sconfitta di Roma: non solo soldi ma anche politica e influenza. Il mondo è cambiato: nuove potenze emergenti occupano spazi e investono in presenza, influenza e prestigio. A Expo si sono sfidate due potenze emergenti (Arabia Saudita e Corea del Sud) di fronte alla quali l’Italia ha fatto la figura del terzo incomodo.

Il mondo che cambia

Il mondo attuale è divenuto il teatro delle potenze medie emergenti, meglio se arroganti e ambiziose. Mentre i grandi (Usa, Cina e Russia) si sfidano sia con la guerra che con la concorrenza economica, mettendosi reciprocamente con le spalle al muro, nuove potenze occupano gli spazi liberi che si aprono.

È il caso dell’Arabia Saudita, come anche della Turchia, degli Emirati, dell’India (quest’ultima addirittura aspira a diventare la quarta grande potenza), del Brasile e Sud Africa… Abbiamo già assistito all’ascesa dei Brics e di quanti desiderano aderirvi. Domani sarà il turno di Nigeria, Angola ed altri ancora, senza dimenticare l’Iran. Tale rivoluzione geopolitica ha dei nuovi protagonisti che vogliono contare. I soldi sono importanti ma non basterebbero: bisogna saperli spendere ed investire bene. In questo l’Arabia Saudita rappresenta un ottimo esempio: Riad è ricca da tempo ma ora il principe ereditario Bin Salman (Mbs) la sta cambiando del tutto. Prima i sauditi si limitavano ad moltiplicare la propria ricchezza investendo in Occidente e finanziando moschee in giro per il mondo.

Mbs ha capovolto tale orientamento: ha smesso di finanziare moschee o madrase e ora investe in politica di potenza. L’Expo non è stato soltanto uno sfoggio di ricchezza: rappresenta una scelta di influenza politica a 360 gradi, sostenuta dalla forza finanziaria. Riad vuole contare, cioè dire la sua e non solo in Medio Oriente. Se non obbedisce più agli Usa, perché dovrebbe usare fairplay con l’Italia? Gli accordi di Abramo non gli bastano più.

Gli altri stati se ne sono immediatamente accorti e al Bie i paesi si sono chiesti cosa potevano ottenere dall’Arabia Saudita in termini di influenza globale. Non si è trattato solo di mercato ma di nuovo soft power. D’altronde gli stati africani, asiatici o latinoamericani, i caraibici o le isole del Pacifico sono alla spasmodica ricerca di alleati in un mondo caotico e noi (italiani o europei) siamo ormai assenti: per questo non si aspettano da noi nulla di nuovo, niente che non gli abbiamo già detto o promesso centinaia di volte.

Riad al contrario rappresenta una novità: una politica estera espansiva che noi non facciamo più da tempo. Anche la Corea ci ha provato ma probabilmente era troppo presto. I coreani hanno dispiegato mezzo governo da mesi in giro per il mondo, incluso il premier: non è bastato e ancor meno sarebbe bastato a Roma, anche perché il sud globale (anche se non unito) è pur sempre diffidente di un Occidente sordo e di un’Europa egoista e ripiegata su di sé.

In conclusione Roma non ha perso per la “monnezza” o perché “passatista” o a causa “della destra” o “della sinistra”, come abbiamo letto in questi giorni da commentatori e politici (facile criticare quando non si è mosso un dito!). Sono tutte spiegazioni provinciali, frutto delle solite polemiche nostrane, vittimiste e alla ricerca del capro espiatorio. Fosse così sarebbe facile rimediare.

Ma il problema è molto più vasto: Roma ha perso per l’assenza di una proiezione internazionale del nostro paese e dell’Europa tutta. Il mondo si muove ma noi siamo immobili, concentrati solo sulle nostre paure (terrorismo, migrazioni, odio per l’occidente...). Se per noi il mondo rappresenta una minaccia, il declino diventa materia autoprodotta in casa: senza nuove ambizioni e visioni si decade davvero.

C’è di più: una volta gli italiani erano almeno considerati i più simpatici tra gli occidentali: ora nemmeno più questo, siamo diventati simili a tutti gli altri europei. Resta da vedere se Riad possiede il soft power politico-culturale necessario ad imporsi: Mbs ha aperto un paese chiuso e arcaico ma la sfida è ancora in corso e con la sola arroganza si può incorrere in grandi errori e delusioni.

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