Ieri sera, più nascosto nella controprogrammazione a Sanremo, è andato in onda su Rai tre alle 21.30 Red Land - Rosso Istria, un film di Maximiliano Hernando Bruno del 2018 sull’esodo istriano e sulle foibe.

Dopo essere andato in sala, cercando spettatori e polemiche che non sono arrivati, il film è stato trasmesso per la prima volta dalla Rai il 10 febbraio 2019 proprio per la giornata del Ricordo, e poi riproposto in ogni occasione possibile da esponenti di destra e postfascisti vari.

L’esperienza di visione di Red Land è tra il disturbante e il ridicolo; ce ne se può rendere conto facilmente dato che il film è disponibile sulla Raiplay.

La forzatura ideologica che sta alla base di Red Land è il tentativo di raccontare la vicenda dell’esodo istriano a partire da una riscrittura completamente arbitraria della vicenda di Norma_Cossetto.

La stessa storia di Norma Cossetto è ormai completamente trasfigurata in un mito a tutto, che ha poco a che fare con una ricostruzione storica rigorosa: Cosetto martire delle foibe è il frutto di una bibliografia disomogenea che mette insieme propaganda e studi molto lacunosi.

Nel libro di Eric Gobetti, E allora le foibe?, si ricostruisce come di studio discutibile in studio discutibile si sia ossificata una piccola mitologia utile più alla propaganda che al lavoro di ricerca storica e divulgazione pubblica delle tragedie della frontiera adriatica.

Red Land risulta così «un esempio di auto-olocaustizzazione: la rappresentazione dei fascisti – diluiti nella piú ampia categoria degli “italiani” come vittime pari agli ebrei, sfruttando l’immarcescibile mito degli “italiani brava gente»; questa è una citazione da un saggio di Nicoletta Bourbaki pubblicato quattro anni fa sul sito di Wu Ming foundation.

I nazisti buoni

A vedere Red Land, in prima serata televisiva, si resta allibiti; la paranoia ideologica di scrivere a qualunque costo estetico e politico una controstoria fa sí che la messa in scena sia un accrocco frankensteiniano di immaginario b-movie in salsa razzista.

La cosa incredibile è come sono ritratti i nazisti: di fatto degli eroi che vengono in soccorso ai fascisti vittime prima della minaccia e poi delle violenze dei comunisti titini.  

Ma c’è di più: i fascisti-italiani (abbiamo capito che non c’è nessun accenno a una problematizzazione dell’adesione al regime né dei suoi crimini) non sono soltanto rappresentati come vittime, ma diventano coloro che hanno deciso mantenendo la fedeltà al duce di dare una lezione morale ai partigiani – e un didascalismo da parodia dell’Istituto Luce, da Fascisti su marte.

Gli sceneggiatori e il regista non si sono vergognati di aver messo in scena battute del tipo: «Chi ci difenderà dai comunisti?» «Mamma, soltanto i tedeschi potranno aiutarci». Oppure: «Vi prego, lasciatemi andare, non ho fatto niente, ero solo fascista».

Quest’effetto diventa ancora più grottesco quando l’esperienza della guerra fascista diventa il viatico di un presunto romanzo di formazione. «Nella vita si cambia spesso», viene detto all’inizio da una delle protagoniste, «ma sono certa che non sarò mai comunista», e questa – sottolineata come in una soap opera – si trasforma nella battuta chiave per leggere l’intero film.

Il risultato finale è un lungo cupissimo polpettone meno che amatoriale come fattura, sinistramente autoparodico.

Il sangue 

Il collettivo Nicoletta Bourbaki, che da anni fa un debunking delll’ideologia di revisionismo sulle foibe, sottolinea i dialoghi su un elemento che ritorna ossessivo di questa rappresentazione: il sangue«

«Uno dei dialoghi chiave del film, per quanto gratuito, è quello tra Selene Gandini / Norma e Franco Nero / Ambrosin in casa di quest’ultimo, dove la prima dichiara: “Io amo questa terra...ha lo stesso colore del sangue che scorre nelle nostre vene”».

Il colore rosso viene risemantizzato in modo esplicito: non il colore del comunismo, ma del nazionalismo, dell’appartenenza genetica a quella comunità di sangue come vuole l’ideologia fascista.

Continua Bourbaki: «L’ideologia Blut und Boden, terra e sangue, è esattamente il trait d’union sovranista tra ascendenze fasciste e simpatie venetiste di cui avevamo notato la curiosa con-vergenza nell’ambiente politico che ha in parte finanziato questo film. Fondamentale in questa ideologia è la rappresentazione dell’altro da sé: nel film sono gli «slavi», addobbati come zingari in contrapposizione agli italiani vestiti invece con abiti “normali”. Anche i bambini istriani identificati come “slavi”, scalzi e dalla carnagione ambrata, ricordano più che altro la rappresentazione leghista dei rom e degli immigrati».

Ci si chiede come si possa pensare di svolgere il servizio pubblico in questo modo. La fatica che da insegnanti ci tocca fare tutti i giorni sembra non quella di introdurre e rendere chiari argomenti complessi come la seconda guerra mondiale combattuta lungo la frontiera adriatica ma cercare di emendare i danni più consistenti di un revisionismo così smaccato e pataccaro da essere indifendibile da qualunque punto di vista culturale.

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