Nelle prossime settimane la Commissione Ue presenterà una proposta legislativa per la riforma delle regole di bilancio europee. L’obiettivo di Bruxelles è che le nuove regole siano approvate dagli stati membri e dal parlamento europeo prima della fine dell’anno, in modo da entrare in vigore nel 2024. In caso contrario, tornerebbe ad applicarsi il Patto di stabilità, adottato nel 1997 e caduto in disgrazia dopo i danni fatti durante la crisi del debito sovrano.

Ricordiamo che il Patto di stabilità, insieme al Fiscal compact adottato in tutta fretta nel 2012 nella convinzione (o, quanto erronea!) che fosse necessario imporre l’austerità per uscire dalla crisi, impongono obiettivi annuali in termini di disavanzo strutturale, cioè depurato dal ciclo, per far sì che il debito pubblico scenda in modo costante verso il livello del 60 per ento (totalmente arbitrario, sia detto per inciso) stabilito dal Trattato di Maastricht.

Fin dall’inizio il Patto di stabilità è stato criticato perché l’enfasi su obiettivi annuali spinge i paesi ad adottare politiche procicliche: in caso di crisi e di calo del Pil, per restare sulla traiettoria di riduzione del debito occorre una restrizione di bilancio che però ha un impatto negativo sulla crescita, innescando un circolo vizioso.

Inoltre, il Patto non riconosce le differenze tra paesi, imponendo gli stessi obiettivi a tutti (one size fits all). Infine, ma non da ultimo, la regola oggi non distingue tra spesa corrente e spesa per investimenti, finendo per penalizzare questi ultimi che politicamente, per un governo a caccia di risorse, sono meno costosi da tagliare.

Inutilmente rigido

La prova che il Patto di stabilità sia una regola inutilmente rigida, restrittiva e controproducente («stupida» ebbe a definirla Romano Prodi quando era presidente della Commissione) viene indirettamente dal fatto che nel marzo del 2020, per evitare gli errori degli anni precedenti, la Commissione europea si è affrettata ad attivare la clausola di sospensione (fino appunto al dicembre 2023) per consentire ai paesi europei di far fronte alla pandemia.

Qualche mese fa la Commissione ha fatto circolare una proposta di riforma, in corso di discussione tra i paesi membri, che sia pur molto imperfetta rappresenta un nettissimo miglioramento rispetto all’esistente. Gli obiettivi numerici annuali sono sostituiti da programmi pluriannuali (4 anni) di riduzione del debito che sono formulati dai paesi membri di concerto con la Commissione, sulla base di scenari di evoluzione delle finanze pubbliche. I paesi ad alto debito devono ovviamente fare sforzi più importanti, soprattutto se gli scenari più probabili prevedono tassi di interesse elevati e crescita modesta, e quindi più rischi per la sostenibilità futura.

Rispetto al Patto in vigore la proposta introduce due miglioramenti molto significativi: in primo luogo, il riconoscimento della specificità di ogni paese e dell’importanza che il piano sia predisposto dai paesi e non imposto dall’alto.

In secondo luogo, l’adozione di una prospettiva di medio periodo, l’unica ragionevole quando si parla di sostenibilità delle finanze pubbliche; è un bene che ci si sia finalmente resi conto dell’assurdità di obiettivi annuali. A fronte di questi pregi, a mio parere il difetto principale è che l’investimento pubblico non è veramente protetto, limitandosi la regola a dare un po’ più di tempo per il rientro a paesi che si impegnino in progetti di investimento significativi.

Il ruolo della Commissione

La proposta prevede un ruolo importante per la Commissione, da un lato nel definire gli scenari con i quali si determinano i rischi di sostenibilità del debito (utilizzando uno strumento sviluppato negli anni scorsi da Banca mondiale e Fmi, l’Analisi dinamica del debito, o Dsa); dall’altro, nell’interagire con i paesi membri durante la predisposizione dei piani di rientro.

Avendo sempre sostenuto che la politica di bilancio di paesi fortemente integrati non debba essere tecnocratica ma determinata da un processo politico di coordinamento, trovo l’arbitrarietà e lo spazio lasciato al negoziato tra paesi e istituzioni europee un pregio. Quanto e come utilizzare la politica di bilancio deve emergere dall’imporsi di una visione sul funzionamento dell’economia (in altri tempi si parlava di egemonia culturale), non spingendo per regole meccaniche che leghino le mani in senso più o meno restrittivo a seconda della propria propensione per la disciplina di bilancio.

Il ruolo centrale della Commissione, tuttavia, è fortemente criticato in modo quasi unanime. Gli oppositori dell’austerità temono che la discrezionalità consenta di imporre politiche draconiane, finendo quindi per farci rivivere gli anni Duemiladieci. I partigiani della disciplina di bilancio, che soprattutto negli ultimi anni hanno criticato la Commissione perché troppo permissiva con i paesi del sud, hanno paura invece che essa lasci passare piani di rientro troppo timidi.

Il non paper di Lindner

Proprio questi ultimi hanno battuto un colpo, nei giorni scorsi. Il ministro delle Finanze tedesco, il falco Christian Lindner, ha fatto circolare un non paper (si chiamano così nel gergo europeo i documenti ufficiosi destinati ad alimentare il dibattito) fortemente critico nei confronti della proposta della Commissione e incentrato sulla proposta di un meccanismo semi-automatico che reintroduce di fatto un obiettivo numerico annuale di avanzo strutturale. La proposta della Commissione finirebbe dunque per essere solo una scatola vuota, e la regola riformata assomiglierebbe molto al vecchio Patto di stabilità (per i paesi ad alto debito sarebbe anche più draconiana).

Il non paper rischia di pesare moltissimo nella proposta legislativa della Commissione, perché i falchi tedeschi operano senza contropoteri. In casa la coalizione semaforo è paralizzata dalla crisi ucraina, il cancelliere Olaf Scholz debole, i Verdi invisibili. In Europa il governo italiano è particolarmente miope, più interessato a mettere il poco peso negoziale che ha sulla bilancia di una sia pure importante e legittima rinegoziazione del Pnrr (pochi maledetti e subito), che a spendere capitale politico per regole del gioco che influenzeranno le nostre politiche economiche per anni.

Emmanuel Macron, indebolito e in guerra con la società civile del proprio paese, sembra oggi lontano anni luce dalle sue ambizioni europee. È desolante che l’ultimo documento significativo prodotto da questi due paesi sia la lettera congiunta Draghi-Macron del dicembre 2021. Da allora, sul ring c’è solo il pugile tedesco, che picchia pure forte. Non andrà tutto bene.

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