Da vent’anni la politica francese gira attorno a un ricordo traumatico: la scena originaria che sembra ripetersi a ogni tornata elettorale, che determina la geometria degli accordi, influenza il voto degli elettori, determina vincitori e vinti, fino al successo di Emmanuel Macron nel 2017. È a quella scena che bisogna tornare incessantemente per capire dove sta andando la Francia e quali siano le chance del presidente di essere rieletto tra un anno.

Lo choc del 2002

Il trauma ha una data e un’ora precisa. Sono le ore 20:00 del 21 aprile 2002 e l’intera nazione è sintonizzata sulla televisione per conoscere i risultati del primo turno delle elezioni presidenziali. A quell’ora si prevede che un’animazione riveli i volti dei due candidati che si affronteranno al ballottaggio, anche se tutti credono di sapere già di chi si tratta: a destra il presidente uscente Jacques Chirac e a sinistra il favorito Lionel Jospin. Ma i giornalisti che conducono il programma, in attesa della chiusura dei seggi, sembrano tesi, preoccupati. Non possono ancora dire nulla, quindi alludono: «I risultati sono sorprendenti», «Nessuno si aspettava una cosa simile».

Alle 20:00 in punto la cosa prende forma, si materializza, imprime su sessanta milioni di retine il volto di Jean-Marie Le Pen. Sarà lui lo sfidante di Chirac al secondo turno. Con il 17 per cento dei suffragi il candidato del Fronte nazionale ha scalzato quello del Partito socialista, lasciando i francesi di fronte alla sola alternativa tra destra ed estrema destra. Nel giro di poche ore tutti i partiti dell'arco parlamentare – socialisti, liberali, centristi, verdi, comunisti… – chiedono agli elettori di opporre uno "sbarramento" contro Le Pen, l’ormai proverbiale fronte repubblicano, cioè a turarsi il naso e votare Chirac. Due settimane dopo il presidente uscente viene rieletto: con l’82 per cento dei suffragi, è un plebiscito. Il demone Le Pen torna nella scatola. La sinistra, che al primo turno si era frazionata in ben otto partiti, al secondo si è dovuta rassegnare a votare il meno peggio. Realismo presidenzialista.

Lo scenario oggi

Lo spettro di quel 21 aprile non smette di tormentare la politica francese, appesa al ricatto del voto utile. Nella primavera 2022 si terranno le prossime elezioni presidenziali e in vent’anni molte cose sono cambiate. L’impresentabile Jean-Marie Le Pen è stato sostituito dalla figlia Marine, che ha ripulito il partito dalle scorie più visibili di neofascismo: alcuni recenti sondaggi la danno in testa, primo partito del paese. Intanto il tema dell’immigrazione è diventato sempre più centrale, e i partiti di centro e di destra sono scivolati verso posizioni più dure, mentre anche una parte della sinistra brontola contro il politicamente corretto e l’Islam.

I francesi sono ormai abituati a vedere l’estrema destra superare il primo turno, come già accaduto nel 2017 contro Macron, ma anche a vederla sconfitta al ballottaggio grazie al senso di responsabilità degli elettori. Fu la fortuna, se non la strategia, del giovane candidato: all’epoca si poteva ancora avere la certezza matematica di uscire vincitori dallo scontro diretto. Superato il primo turno per pochi punti, al secondo Macron vinse con soltanto il 66 per cento, segno che la diga aveva già cominciato a incrinarsi. E oggi? Gli analisti iniziano a sospettare che il fronte repubblicano, semplicemente, non esista più. Un sondaggio Harris Interactive di fine gennaio dava Macron a soli quattro punti di vantaggio da Marine Le Pen.

La politica francese sembra mostrare plasticamente che la divisione fondamentale non è più tra destra e sinistra ma tra centristi e populisti, centri urbani e zone rurali; ma non dobbiamo dimenticare che questa divisione è essa stessa politica, costruita, non inesorabile e nemmeno eterna. Oggi questa strutturazione del campo politico sembra convenire a entrambe le parti: i centristi arrivano al potere sventolando la minaccia del populismo; i populisti crescono nelle amministrazioni locali, governano i territori e non vengono impacciati dalle più complesse responsabilità della politica nazionale. Tuttavia, neanche la certezza che debba sempre finire in questo modo è eterna. Oggi è sempre meno assurda l’eventualità che, in un paese che si considera un faro del progresso, arrivi al potere una forza reazionaria.

Tre sono i fattori che potrebbero determinare questo esito: innanzitutto l’estrema destra risulta meno minacciosa, e per quasi un quarto degli elettori realmente attrattiva; in secondo luogo Macron, pur con una popolarità superiore ai suoi predecessori a fine mandato (attualmente al 41 per cento), è molto inviso a una parte della sinistra per via delle sue politiche liberali; infine, e forse soprattutto, la sinistra sembra essere stufa di vent’anni di voto utile. Se solo quattro anni fa il quotidiano di centrosinistra Libération titolava «Fate quello che volete ma votate Macron» (al ballottaggio), questo febbraio ha fatto molto discutere la sua inchiesta sugli elettori delusi e soprattutto il titolo: «A questo giro non faremo sbarramento. Abbiamo già dato». Profezia che rischia di autoavverarsi?

La parabola Macron

Quel che è certo è che proprio dalla sinistra sembrano dipendere molte cose. In attesa di sapere se i socialisti si metteranno d’accordo su un candidato e se la sinistra di Mélenchon riuscirà a trovare un accordo con gli ecologisti, i sondaggi mostrano non soltanto che una parte consistente dell’elettorato piuttosto che votare Macron in un eventuale ballottaggio contro Le Pen sarebbe pronta ad astenersi, ma addirittura che alcuni voterebbero la candidata dell’estrema destra. Il malcontento crescente di cui Le Pen è il sintomo, d’altronde, non lo ha creato lei: è il prodotto di una congiuntura economica epocale che nessuno dei partiti di governo, incluso Macron con le sue ricette liberali, è riuscito a contrastare.

Sembra passato un secolo da quando il presidente era il pupillo della stampa, Giove incarnato. Bisogna osservare come sono cambiate le copertine dei grandi magazine che lo avevano quasi unanimemente spinto nella sua ascesa alla presidenza: l’Obs, di centrosinistra, lo ha raffigurato dietro al filo spinato ai tempi della crisi dei migranti nel 2018 e lo ha descritto come il «Presidente dei ricchi» nel 2020; mentre i giornali di centrodestra hanno smesso d’incensarlo e hanno spesso criticato la gestione della pandemia come sintomo dell’immobilismo delle istituzioni del paese, che Macron non è riuscito a riformare.

La campagna elettorale del 2022 dovrà insistere sul cambiamento ma in continuità con il quinquennio precedente, mantenendo le solenni promesse di rottura fatte sia durante la crisi dei gilet gialli che durante la pandemia: ripensare il capitalismo francese in chiave più equa e più verde. Ma in assenza di segnali più concreti, e malgrado il notevole piano di sostegno dispiegato tra 2020 e 2021, le parole non basteranno a riconquistare la sinistra.

Ad oggi la vittoria di Macron resta comunque l’ipotesi più plausibile, ma a che prezzo. Vent’anni fa Chirac era ben consapevole che il suo apparente plebiscito era in realtà un mandato dimezzato, e infatti governò a metà, senza grandi guizzi né colpi di coda. Una vittoria per il rotto della cuffia nel 2022, con metà del paese contro di lui, consegnerebbe al presidente un potere limitato, esattamente il contrario di quello che sarebbe richiesto per portare avanti le sue politiche di rottura. E già ora il principale problema di Macron, malgrado il suo zoccolo duro di sostenitori, è di aver fatto attorno a lui terra bruciata: circondato di ministri inesperti, ha fatto l’errore di entrare in aperto conflitto sia con il mondo universitario sia con quello che lui stesso ha definito il “deep state” delle grandi amministrazioni.

Ma c’è un’alternativa a Macron? Al momento proprio no, e per il gioco dei pesi e dei contrappesi della vita politica francese sembra destinato a governare per altri cinque anni, unico argine al populismo di Marine Le Pen. Un gioco strano, che l’ultima volta gli è andato bene. Ma a furia di giocare, e a furia di fallire, potrebbe prima o poi smettere di funzionare.

© Riproduzione riservata