Al G20 c’è il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ma non il leader cinese Xi Jinping, che da quasi due anni non lascia la Cina. Per più di un anno la pandemia è stata la priorità per tutti. Malgrado lo scambio di accuse sull’origine del virus, in buona sostanza ci si è concentrati sulle varie fasi a cui il Covid ci ha costretti: dalle norme sociali ai vaccini. Al G20 il compito di generalizzare la vaccinazione all’intero globo: una partita della gara per l’egemonia globale.

Gli esperti stanno tentando di ridisegnare la cartina geopolitica indicando il mutamento delle varie sfere di influenza. Ma è difficile dire chi sta in testa: il mondo sembra sprofondato in una sorta di caos senza regole in cui le alleanze di fanno e disfano rapidamente. Basta pensare alla guerra Armenia-Azerbaijan che ha preso tutti alla sprovvista per poi altrettanto rapidamente scomparire. Conflitti più lunghi come quello siriano sono entrati in un cono d’ombra.

L’allarme occidentale è puntato sugli spazi vuoti che si creano e sull’ambizione della Cina a riempirli. L’Europa omette di concentrarsi sulla ripresa delle relazioni con la Russia e la Turchia, malgrado siano due stati necessari. Abbiamo assistito a fughe in avanti americane con l’Australia, crisi di identità della Nato, irritazione francese ecc...

Esiste però un problema molto più importante nella sfida globale: il soft power. Accecati da sé stessi gli occidentali si sentono maestri nell’influenza politico-culturale (giungere ai cuori e alle menti, si dice in America).

In fondo l’ipotesi post-liberale di Vladmir Putin o il modello islamo-nazionalista di Recep Tayyp Erdogan sfidano l’Occidente sul suo terreno. La Cina invece ha cambiato campo di gioco e ha in mano una carta davvero imparabile, una specie di soft power capovolto: la non ingerenza negli affari interni degli altri Stati.

E’ una vecchia carta ma oggi molto utile. Pechino protegge i suoi commerci e fa la voce grossa sulle questioni frontaliere marittime: Taiwan e mar della Cina sono degli obiettivi sui quali non transige in maniera assoluta. 

Per il resto promette assoluta neutralità politica a tutti, particolarmente in Africa dove la democrazia è più fragile. In un mondo caotico in cui sono saltati riferimenti, quadri regolatori e alleanze (anche il multilateralismo è in crisi), la promessa cinese è ciò di cui le élite allarmate di tanti stati sentono di aver bisogno: essere lasciate in pace e senza condizionamenti.

La Cina interpreta il tempo attuale cancellando l’ambizione di modellare gli altri a propria immagine e somiglianza. Per tanto tempo l’Occidente ha voluto fare nation building ma ora non ce la fa più.

Anche coloro i quali auspicano un’alleanza mondiale tra democrazie sanno che non è più il tempo. Pechino invece si posiziona con realismo totale davanti alla sfida della ripresa mondiale dopo il covid: noi ci siamo – dice ai possibili alleati - vi aiutiamo economicamente ma non faremo nessun tipo di ingerenza né ci intrometteremo nei vostri affari o ponendo condizionamenti. Infondo nell’idea dei suoi ideatori, l’obiettivo finale della globalizzazione non era un mondo piatto uguale per tutti?

La Cina ha trovato un modo peculiare suo di interpretarlo: un mondo-mercato che trova l’equilibrio giusto divorziando dai lacci e lacciuoli della democrazia.

Naturalmente dal punto di vista economico rimangono molte costrizioni come una nuova crisi del debito. Ma tutto l’armamentario della good governance e del nation building viene spazzato via. La vera sfida del nostro G20 sarebbe di offrire una proposta più allettante. 

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