La vicenda della scuola in Italia sta diventando una farsa. Anzi, un dramma per il diritto all’istruzione. Chi dice che la scuola non ha mai chiuso, perché on line c’è sempre stata, mostra di non considerare temi rilevanti: dall’amplificazione delle diseguaglianze tra gli studenti per la diversa possibilità di fruizione della tecnologia alla mancanza di un metodo adeguato e omogeneo per lo svolgimento più efficace della didattica a distanza.

FOTO DI REPERTORIO foto LaPresse 07-03-2012 Trovati fondi per la scuola

La nuova intesa sulla scuola

Sembrava che con il Dpcm dello scorso 3 dicembre si fosse messo un punto circa la ripresa dopo le vacanze natalizie. Dal 7 gennaio 2021, «al 75 per cento della popolazione studentesca» delle scuole secondarie di secondo grado deve essere garantita l’attività didattica in presenza, prevede la disposizione. E presso ciascuna prefettura è istituito un tavolo di coordinamento per il «raccordo tra gli orari di inizio e termine delle attività didattiche e gli orari dei servizi di trasporto pubblico».

Già quella strana percentuale sembrava essere il risultato più di una contrattazione politica che di studi ed evidenze.

Inoltre, potevano nutrirsi dubbi circa il fatto che in un mese, con le vacanze di Natale nel mezzo, si sarebbe riusciti a realizzare ciò che non si era fatto durante l’estate. E puntualmente ne è arrivata conferma.

Nella Conferenza Unificata, il 23 dicembre scorso, governo, regioni e Comuni hanno siglato l’intesa per la riapertura delle scuole, «partendo con il 50 per cento di studenti in presenza per arrivare al 75 per cento» nel mese di gennaio. Eppure, come detto, il Dpcm di inizio dicembre prevedeva quest’ultima percentuale sin dalla data di riapertura.

La spiegazione si trova in una nota inviata il 22 dicembre scorso dalla ministra dell’Istruzione a quello della Salute, ove si legge che «nell’ambito dei lavori preparatori all’Intesa (…) sul Documento di Linee guida per garantire il corretto svolgimento dell’anno scolastico 2020-2021, è emersa l’esigenza (…) di fissare come obbligatorio il raggiungimento del 50 per cento dell’attività didattica in presenza, con l’obiettivo di assicurare il raggiungimento del 75 per cento, in modo graduale».

Siccome «non verrà adottato nell’immediato un nuovo Dpcm in materia, si richiede che tale misura sia prevista tramite apposita ordinanza del Signor Ministro della Salute».

Queste ordinanze sono provvedimenti per casi eccezionali di particolare gravità e urgenza. Dunque, prevedere con largo anticipo un’ordinanza “contingibile e urgente”, per derogare a una norma, contraddice le caratteristiche dell’atto. Ma i profili di dubbio sono anche altri.

Le perplessità sulle riaperture 

Dopo i molti mesi passati a preparare la riapertura di settembre e a quasi quattro mesi dalla ripresa, lascia perplessi che si varino ancora Linee Guida. Ed è surreale che non si impari mai dalle lezioni precedenti.

Le garanzie estive circa la didattica in presenza erano state vanificate dalle chiusure delle scuole poche settimane dopo. Le rassicurazioni conseguenti al Dpcm del 3 dicembre stanno seguendo la stessa sorte.

E come andrà intesa la percentuale del 75 per cento, quando sarà raggiunta?

In un documento relativo alla regione Lazio si legge che ciascuna classe potrà frequentare «per tre quarti in presenza e un quarto a distanza» ovvero, se la capienza delle aule lo consente, la totalità degli studenti potrà essere presente «per tre settimane su quattro». La norma è vaga, dunque sarà implementata variamente, con ciò che ne consegue in termine di uniformità della fruizione del diritto all'istruzione.

Il presidente della Conferenza delle Regioni, Stefano Bonaccini, ha definito l'accordo sul 50 per cento come «punto di partenza positivo», con «l'auspicio di veder crescere questa percentuale».

Perché parlare del 50 per cento come «punto di partenza» per i rientri a scuola, se la “partenza” era normativamente fissata a una percentuale diversa?

Questo tipo comunicazione, che cambia le carte in tavola con disinvoltura, conta forse sul fatto che non tutti ricordano precisamente il contenuto delle numerose disposizioni dei decreti che continuano ad affastellarsi; invece, sembra una presa in giro a chi tali disposizioni le ha ben chiare.

E la ripresa il 7 gennaio? Nemmeno quella è certa.

Il presidente del Consiglio Conte - intervistato il 23 dicembre scorso - ha affermato di aver raccomandato «un'apertura differenziata scuola per scuola, paese per paese», «nel segno della flessibilità». Ma la “flessibilità” di cui ha parlato Conte significa, in altre parole, la persistenza delle differenze che il Dpcm del 3 dicembre mirava a scongiurare.

Le diversificazioni, infatti, avrebbero dovuto riguardare esclusivamente orari di entrata e uscita degli studenti, in relazione alle specificità locali e alla disponibilità di mezzi di trasporto, non la data di riapertura.

Dopo mesi passati a lamentarsi delle chiusure nelle regioni, a prescindere delle colorazioni in zone di rischio, pare si torni indietro ancora una volta.

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Incertezza normativa

Il governo stenta a capire che questo immancabile sancire e poi tornare indietro non giova alla credibilità del regolatore, specie se continua ad avvenire come se niente fosse, soprattutto senza che muti la situazione sottostante.

Dai primi di dicembre non si è avuto un peggioramento della curva dei contagi o di altri indicatori di rischio, né sono emerse nuove evidenze riguardanti le scuole, tali da indurre il governo a una maggiore prudenza e portare al 50 per cento la percentuale inizialmente prevista.

L’impressione è che ci si continui a dibattere tra precauzione e inefficienza. Ma soprattutto che, al di là degli auspici sulle riaperture, la coperta per la scuola sia sempre troppo corta: il nodo dei trasporti resta di fatto l’ostacolo essenziale.

Al di là dei fondi stanziati e delle soluzioni provvisorie, dopo dieci mesi dall’inizio della pandemia e quasi quattro dall’inizio dell’anno scolastico, ancora non si intravedono rimedi efficaci per consentire la prosecuzione con continuità e in sicurezza.

Dovrebbe ormai essere chiaro che il passaggio tra scuola in presenza e a distanza determina comunque una cesura. E che la scuola on line non si esaurisce nei dispositivi elettronici o nella velocità della connessione Internet.

La didattica a distanza in questi mesi è stata fallimentare anche per la mancanza di un’organizzazione e di una politica delle tecnologie nella scuola. E con essa è fallita anche la garanzia di un’istruzione appropriata per tutti. Il virus passerà, ma resterà lo sfregio a una generazione.

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