Ogni fine d’anno ci porta il presepe, l’albero di Natale, il calendario di frate Indovino e un libro di Bruno Vespa.

Questa volta, nel libro di Vespa il noto e bravo giornalista con un tiro fa due colpi. Il primo è fare attaccare Matteo Salvini dal ministro Giancarlo Giorgetti perché non ha compiuto fino in fondo il processo di autocritica dell’antieuropeismo della Lega. Il secondo è proporre un piano eversivo: unificare i poteri dei presidenti della Repubblica e del Consiglio in una sola persona: Mario Draghi.

Tutto ciò dovrebbe avvenire senza l’uso della forza e senza neanche la modifica della Costituzione ma con un passaggio «de facto» che crei una figura nuova, uno sbocco verso forme di cesarismo napoleonico del più bravo, più illustre, del più amato degli italiani.

Questa proposta non è nel calendario di frate Indovino. Viene avanzata da un ministro che ha giurato fedeltà alla Costituzione, e riguarda il futuro di un presidente che a sua volta ha giurato. Dopo questo annuncio il ministro balbetta e il presidente del Consiglio tace. E il presidente della Repubblica, chiamato a garantire il rispetto della carta costituzionale, non chiede un chiarimento al ministro e al governo. Ciò è profondamente sconcertante.

Non sollevo una questione di carattere legale, di questo se ne dovrebbero occupare magistrati e parlamento. Sollevo una questione politica: è mai concepibile che uomini di alta competenza stiano in silenzio di fronte a una proposta di modifica radicale di fatto della Costituzione, senza neanche il rispetto della procedura della revisione?

Non siamo più neanche nella giostra di cui parlava il professore Michele Ainis giorni fa, ma nell’ottovolante, una situazione nella quale è urgente un chiarimento. Ma non solo formale: bisogna andare più a fondo, cercare di capire.

Quale spinta ha mosso il ministro a una così azzardata, imprevedibile, improvvida proposta di violazione della Costituzione? C’è qualcosa di più profondo. Nel governo s’avanza un’idea: che la politica è di ostacolo alla gestione delle grandi trasformazioni di carattere economico che si annunciano, quella ecologica, quella digitale e quella sanitaria.

E che pongono il problema della mobilitazione di risorse finanziarie immense che devono essere gestite fuori dal tradizionale sistema politico. Il presidente del Consiglio a Glasgow ha portato alla luce un pensiero: concentrare le risorse in una Banca mondiale che gestisca i capitali pubblici e privati che devono essere immessi nel circuito globale dell’economia.

Al fondo c’è un’idea: che la Banca mondiale sia un governo mondiale. Non servono più governi politici, il multilateralismo non è affidato a governi degli stati. Di qui l’idea di irrilevanza della natura politica della Costituzione, la sua musealizzazione come reperto della memoria che può essere superato e persino de facto.

Del resto si dice che siamo nella fase del pragmatismo. E il pragmatico è la soluzione dei problemi dell’oggi, la navigazione a vista.

Ma è compatibile con le tre grandi rivoluzioni che richiedono una grande capacità di prospettiva storica e progettazione politica, e impegnano un periodo non inferiore ai prossimi trent’anni? Servirebbero entità politiche e statuali più ampie. Eppure si abbandona l’idea di una unificazione politica dell’Europa.

Giorgetti aspira a occuparsi della utilizzazione dei flussi finanziari del Piano nazionale di ripresa e resilienza, e Draghi aspira a occuparsi del grande equilibrio dei flussi mondiali. Siamo di fronte a un conflitto di natura politica e ideologica, degradato a una operazione di carattere efficientistico.

Il rischio, grave, è che il flusso delle risorse taciti la discussione politica. Per capire del nostro futuro non vorremmo dover aprire il calendario di frate Indovino.

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