Giorgia Meloni sostiene che la strage di via d’Amelio, in cui vennero uccisi dalla mafia Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta, «è stato il motivo per il quale ho iniziato a fare politica». Un’affermazione che ha ribadito anche lo scorso 19 luglio, stavolta da presidente del Consiglio in carica. A leggere le cronache giudiziarie in cui sono incappati i membri del governo e le infauste proposte sulla riforma della giustizia del ministro Carlo Nordio, però, sembra che la premier abbia fatto strame della più importante lezione di etica politica del suo venerato maestro.

Da sempre di indole giustizialista come gran parte dei Fratelli d’Italia, da quando siede a palazzo Chigi Meloni si è trasfigurata in una turbo-garantista sul modello berlusconiano, quello che confonde la sacrosanta presunzione d’innocenza con una licenza d’impunità, riservata soprattutto a colleghi, potenti e colletti bianchi. Da ex fustigatrice, la premier giustifica la sua nuova postura con l’assunto che si è innocenti fino al terzo grado di giudizio, e che la fiducia politica non deve venir meno se non di fronte a una sentenza definitiva di colpevolezza: motivo per cui Andrea Delmastro, Vittorio Sgarbi o Daniela Santanchè, nonostante gli scandali, restano inchiodati alle loro poltrone.

Meloni cita Borsellino spesso e volentieri, ma dimentica che il grande magistrato definì la logica da lei usata «un equivoco» usato dalla classe dirigente peggiore. Tre anni prima di saltare in aria, parlando dei rapporti tra mafiosi e rappresentanti delle istituzioni il pm stigmatizzò infatti i partiti che si nascondevano «dietro “lo schermo” della sentenza»: è sbagliato affermare, ragionava il magistrato, «che se la magistratura non lo ha condannato quel politico è un uomo onesto», perché non sempre la giustizia riesce a raccogliere «le prove per condannare». Borsellino aggiungeva dunque che oltre a quelli «del giudice esistono i giudizi politici», e che davanti a sospetti gravi di contiguità con il malaffare i governanti hanno un solo compito: «Trarre le conseguenze e fare piazza pulita al proprio interno di tutti coloro che sono raggiunti da episodi o da fatti inquietanti, anche se non costituenti reato». Nella sua lezione, il giudice non fa riferimento solo alla mafia: i giudizi possono infatti riguardare anche «un alto burocrate che ha commesso favoritismi: potrebbe non aver commesso reato», ma dovrebbe essere messo comunque sotto «procedimento disciplinare perché non ha agito nell’interesse della buona amministrazione».

Ora, non c’è bisogno di una sentenza definitiva per affermare che il sottosegretario Delmastro abbia girato intercettazioni a divulgazione limitata al collega Giovanni Donzelli che con quelle ha poi attaccato in parlamento l’opposizione. Né è necessario un dispositivo di colpevolezza in Cassazione per bancarotta o falso in bilancio per sostenere già oggi che le aziende di Santanchè, piazzata da Meloni al Turismo per rilanciare il settore, sono precipitate in gravissima crisi facendo perdere decine di posti di lavoro, e che la ex socia di Flavio Briatore abbia mentito a lei e al paese sostenendo di non avere conflitti di interessi dopo la vendita delle quote del Twiga, visto che da ministra ha poi fondato una società che incassa una quota dei ricavi proprio dello stabilimento balneare.

Non è tutto. Non esisteranno contestazioni penali, ma è un fatto che il sottosegretario Claudio Durigon a cui Meloni ha affidato la riforma delle nostre pensioni abbia mantenuto rapporti con soggetti, imprenditori e professionisti rivelatisi anche in via diretta in rapporti con il clan Di Silvio di Latina (per questa frase il leghista ha querelato Domani per diffamazione, perdendo), o che Matteo Salvini – seppur mai indagato – abbia dato incarichi politici a filoputiniani che hanno provato a gestire l’operazione Metropol a favore della Lega. Ed è indubbio che il ministro delle Infrastrutture sia in rapporti stretti con i parenti che hanno preso consulenze d’oro per avvantaggiare imprenditori a caccia di appalti pubblici dentro Anas, da quello stesso ministero controllato. «Fatti inquietanti», direbbe Borsellino.

Meloni dell’insegnamento del giudice che ispirò la sua discesa nell’agone politico oggi sembra fregarsene. Lo dimostra la tutela di due condannati in via definitiva come Augusta Montaruli, vicepresidente della commissione di vigilanza sulla Rai, e il numero due del ministero dei Beni Culturali Vittorio Sgarbi, oggi nuovamente indagato per autoriciclaggio di opere d’arte.

Ma soprattutto lo evidenzia l’appoggio incondizionato alla devastazione del processo penale portata avanti da Nordio: dietro le intenzioni garantiste sull’abolizione tout court dell’abuso d’ufficio, sulla limitazione delle intercettazioni e sulla difesa mediatica dei soggetti terzi “non indagati”, c’è la volontà di indebolire le indagini di corruzione sui politici e i colletti bianchi. Sarà una fan di Borsellino, ma l’idea di giustizia ed etica pubblica di Meloni è molto diversa da quella del suo magistrato di riferimento.

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