All’improvviso è diventata opinione condivisa, con il timbro del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, quello che in tanti abbiamo sempre detto e scritto, anche e soprattutto qui su Domani: che il Recovery Plan del governo Conte era inadeguato alla sfida e alle risorse a disposizione, oltre 209 miliardi di euro.

Ieri Emiliano Fittipaldi ha ricostruito per la prima volta tutto quello che è successo in questi mesi nel rimpallo tra palazzo Chigi, ministero del Tesoro e Comitato interministeriale per gli Affari europei.

In sintesi: il piano si è prima arenato per mesi, poi è stato riscritto in fretta e furia negli ultimi giorni, quando il Tesoro ha ripreso il controllo della situazione dopo mesi di critiche (anche costruttive) da esperti indipendenti e associazioni della società civile come, per esempio, il Forum disuguaglianze e diversità.

Poiché di tempo ce n’è poco ed è difficile che Mario Draghi possa ricominciare da capo un percorso che, a prescindere dall’esito, è durato mesi, bisogna vedere cosa abbiamo imparato dalla prima fase del Recovery Plan. In modo da far tesoro delle lezioni e non ripetere gli stessi errori. Sembra che parliamo di metodo, ma in questa vicenda il metodo conta almeno quanto il merito.

Liste della spesa

La prima lezione è: mai più liste della spesa. Tra giugno e dicembre, i negoziati sul Recovery Plan sono stati molto – troppo – discreti. Palazzo Chigi, e la struttura che l’ex premier Giuseppe Conte aveva messo al centro del piano (il Comitato interministeriale per gli Affari europei), hanno raccolto richieste di spesa con l’impegno di vagliarle e scremarle. La riservatezza delle bozze e del negoziato doveva evitare l’assalto di partiti e potentati vari dell’apparato pubblico ai fondi europei, ma non ha funzionato, anzi, lo ha favorito. Nelle bozze c’erano perfino i progetti dell’Eni con la descrizione copiata dal sito aziendale. Il risultato è stato un Recovery Plan prima versione che era un lungo elenco di voci da finanziare, senza una chiara visione complessiva, come se la somma delle parti dovesse produrre spontaneamente un tutt’uno armonico. Non è successo.

La seconda lezione è che non si può fare il Recovery Plan contro gli apparati dei ministeri, serve una regia, non una gestione alternativa. Palazzo Chigi o il dipartimento degli Affari europei non hanno le strutture necessarie per un compito così mastodontico. L’idea di Conte di assumere centinaia di manager e consulenti esterni era destinata al fallimento perché questi non avrebbero avuto potere di attuare nulla senza le strutture della pubblica amministrazione “ufficiale” alla quale sarebbe rimasto soltanto il potere di far fallire il piano. E lo avrebbe usato.

D’altra parte, però, una regia serve. Ed è opportuno che sia una regia politica, riconoscibile, lontana dagli automatismi che regolano molte strutture ministeriali. La Ragioneria generale dello Stato, presso il ministero dell’Economia, per esempio, è un serbatoio di competenze. Ma sono competenze per monitorare che non si spenda troppo, non per assicurarsi che si spenda bene, con progetti che, se davvero innovativi, sono anche inediti e un po’ fuori dagli schemi.

Qui bisogna fare una cosa abbastanza estranea alla tradizione italiana: scegliere dei progetti, motivare la scelta con analisi sui costi probabili e i benefici stimati, indicare delle tappe nella realizzazione e un obiettivo misurabile per stabilire, a posteriori, se le cose sono andare come dovevano oppure no. Questo tipo di approccio inedito richiede uno sforzo congiunto, non si può delegare a nessun singolo ministero e dipartimento.

Un lavoro a tempo pieno

L’altra lezione è che il Recovery plan richiede molto capitale politico: quando la pandemia ha richiesto tutte le attenzioni di Conte, tempo ed energie non sono bastate per occuparsi anche del Recovery Plan, che è rimasto indietro. Per questo il Recovery deve stare su un binario chiaro, non può essere uno dei tanti dossier di cui occuparsi.

E’ un lavoro a tempo pieno ricostruire l’economia italiana. Infine l’altra lezione di questi primi mesi è che ci vuole ambizione: gran parte dei progetti servono soltanto a risparmiare tassi di interesse sul debito pubblico, si prendono i soldi di Next Generation Eu per finanziare progetti già previsti ed evitare l’emissione di debito pubblico. Legittimo, qualcosa si risparmia, ma questa è l’ultima occasione di impostare una crescita equa e sostenibile prima di rassegnarsi, definitivamente, al fatto che l’Italia sia diventata soltanto una Repubblica fondata sul suo debito pubblico.

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