Questo autunno, che non si prospetta per nulla caldo se non per le nostre bollette, non rappresenta certo la prima crisi in cui si intrecceranno energia e politica internazionale.

+Le domeniche di austerity degli anni Settanta, o la reazione delle Borse alle guerre del Golfo, ci ricordano che l’incertezza di un fronte militare può facilmente trasformarsi in qualche grado in meno nel nostro salotto. Sarebbe però un errore considerare l’attuale momento storico alla stregua dei precedenti. Di fatto questa crisi segna la fine di un preciso modello di sviluppo e pone la nostra cultura politica di fronte a interrogativi del tutto inediti.

Forse gli storici del futuro etichetteranno lo smarrimento vissuto in questi ultimi tre anni come “la fine della globalizzazione”, sancendo così la conclusione di un ciclo che va dalla fine della Guerra fredda all’inizio della pandemia. Fino alla caduta della Cortina di ferro “globalizzazione” era un’idea partecipe del pensiero liberale di metà del nostro pianeta. Una parola che contribuiva al binomio democrazia-capitalismo, ma rigettata da quelle forze del socialismo storico ostili a un mondo unito dal mercato.

Tuttavia, dopo il 1989 e la vittoria delle democrazie liberali, l’impianto ideologico e culturale di queste forze “di sinistra” finì per svuotarsi, e queste videro la globalizzazione come una possibilità di continuare la propria missione sociale verso la riduzione delle diseguaglianze. «Il pensiero liberale è di destra, ora è buono anche per la sinistra», cantava Gaber nel 1995. La parola che identificava questo impegno era “globalismo”. In Cina, dove le aperture di Deng Xiaoping al mercato salvavano un’economia al collasso, sembrava funzionare.

Dall’altra parte anche le forze che per 40 anni avevano incarnato il liberalismo cercavano una nuova missione. Senza un avversario politico e culturale, senza barriere per merci e idee, anche i valori e le identità forti alla base del loro pensiero sfumavano in quella “società liquida” descritta da Bauman. Come poteva conciliarsi la creazione di una “comunità globale” con una cultura politica guidata da patria, tradizione, identità?

Un’era finita

Ma sono bastate una pandemia e un’invasione ai confini dell’Europa perché quella società liquida tornasse a cristallizzarsi in qualcosa di completamente nuovo. Un altro ciclo è giunto al termine, o per dirla come Macron: «È finita l’era dell’abbondanza». Qualcuno di recente ha fatto notare che solo il presidente francese sembra essersene accorto. In un certo senso è vero: la cultura politica sta cercando soluzioni ispirate a un mondo che non c’è più, perché la società in cui vivremo non sarà più sotto l’insegna della globalizzazione o del globalismo, e sarà comunque qualcosa di diverso dal liberismo o dal collettivismo che l’hanno preceduta.

Da un lato la cultura politica di destra sembra quella storicamente più attrezzata ad affrontare un mondo destinato nuovamente a chiudersi, in cui tradizioni, patria e identità tornano di moda. D’altra parte si trova comunque di fronte a una società che per connessioni tecnologiche, spinta demografica e sfide che rimangono comunque globali, non può più permettersi di vivere in bolle isolate come nel secolo scorso.

Per la sinistra il lavoro sembra essere più lungo: si trova ancora una volta alla ricerca di un progetto nuovo, capace di limitare le diseguaglianze, superando il globalismo come questo ha superato il collettivismo. Sono sfide diverse, ma riusciremo a comprendere che la posta in gioco è la stessa? Quella di provare di nuovo a vivere insieme, qualsiasi siano le nuove identità che vorremo assumere di fronte alla storia.

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