Qualche giorno fa, su queste pagine, abbiamo scritto sulla differenza tra la cultura politica di destra e di sinistra. Alla base della distinzione, due risposte diverse ad una delle domande fondamentali della democrazia moderna: “E’ possibile vivere insieme senza rinunciare a ciò che si è?” Due prospettive antitetiche e speculari di interpretare lo spazio socio-economico e quello dei valori personali dei cittadini.

L’articolo nasceva dalla necessità di ricordare i valori alla base dell’alternanza in democrazia in un momento in cui la campagna elettorale era concentrata piuttosto su alleanze e strategie, ma era inevitabile che ne scaturisse una domanda, più che mai attuale in questi giorni in cui la ricerca di un “terzo polo” interessa chiunque non si identifichi nel marchiato bipolarismo delle prossime elezioni: come si colloca il centro in questo schema?

La risposta è che il centro non esiste.

E’ chiaro che una formazione politica ha tutto il diritto di proclamarsi di centro e varare un programma che i propri elettori identificheranno in quell’area come il più adatto a loro. A “non esistere” è piuttosto una cultura politica di centro che risponda alla medesima enunciazione concettuale utilizzata per le altre.

Una cultura politica deve, infatti, possedere due elementi fondamentali: un insieme di valori o di principi, attraverso cui immaginiamo il nostro futuro, e il disegno di un progetto con cui far evolvere la società. Poi, accanto a questi c’è il “metodo”, ovvero la capacità di tradurre immaginazione e progettualità in un’agenda politica pronta ad adattarsi alle necessità dei cittadini.

Per capire l’importanza di tal struttura pensiamo come ideologie sociali, religioni, o semplicemente umanesimo, inteso come atteggiamento in grado di soddisfare le aspirazioni dell’individuo, abbiano avuto un peso determinante nelle scelte politiche degli ultimi 100 anni. Molte di queste architetture valoriali sono state messe fuori gioco dalla storia, soprattutto quando, con la fine della Guerra Fredda, è nata l’idea che le democrazie liberali, vincitrici dello scontro, non avessero più bisogno di ideali per crescere, quanto piuttosto di decisioni economiche e sociali.

E’ in quel momento che si è attivato un “assolutismo di metodo” che ha pervaso tutto l’aspetto della progettualità. Il fare si è sostituito al pensare e il metodo si è sostituito alla cultura politica.

Oltre la tecnica

Affidarsi al metodo, alla sola tecnica, può comunque dare risposte eccellenti ai problemi dei cittadini: in fondo competenza, efficacia ed efficienza sono i valori propri di chi ha scelto questa strada. La stessa area dell’amministrazione entra a buon diritto all’interno dello spazio della politica, anche se ne costituisce solo un aspetto. Ma il metodo non può essere considerato cultura politica, per quanto una certa narrazione tenda a proporlo come tale.

Una parte della risposta alla domanda “è possibile vivere insieme senza rinunciare a ciò che si è?” prevede infatti l’immaginazione collettiva di una progettualità sociale. Accanto ai piani dei manager per le istanze immediate e per la risoluzione dei problemi, la visione di futuro è più che mai necessaria per pianificare il vivere insieme.

E’ un discorso che sentiamo di legare al “centro” a causa del peso che questa parola ha avuto nella storia politica del nostro paese, ma il “metodo” in alternativa alla cultura politica è una tentazione di diverse forze che troveremo sulla scheda del prossimo 25 settembre. E non è certo l’unico caso in cui la cultura politica si trova sbilanciata fino ad annullarsi.

All’altro estremo c’è chi propone l’immaginazione senza associarla ad alcun metodo, rischiando di cadere nel puro ideologismo, completamente sradicato dalla realtà.

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