Questa guerra lambisce le coscienze e i portafogli, un doppio registro che anima i discorsi e arma le emozioni, sui talk show e nei social. Non si tratta di un fatto eccezionale o nuovo. I calcoli di convenienza sono stati anche alleati della pace, benché abbiano in generale accompagnato, più che impedito, guerre e conquiste.

La storia che ci riguarda, quella europea, ha visto l’aprirsi di grandi commerci dopo e grazie a conflitti militari, guerre coloniali o di intervento in guerre locali per conquistare nuovi mercati e pacificare con il diritto commerciale. Il settecentesco “doux commerce” è stata una lettura poetica post hoc, a guerre avvenute.  E oggi?

Oggi, il commercio è un attore centrale, non solo delle armi o del petrolio ma anche delle parole. Non va dimenticato che la cosiddetta “sfera pubblica di formazione dell’opinione” è uno spazio anche economico, sia per i finanziamenti che coinvolge sia per la logica che lo anima.

La rivoluzione berlusconiana è un simbolo di questo connubio.  Far cadere il velo alle grandi narrative, anche quando buone ed edificanti, ha almeno una funzione meritoria: ci libera dalle illusioni e ci tiene vigili sul potere (“non la beviamo” per dirla con Gobetti).  Il “soft power” (quello dell’opinione) è alla fine della festa tutt’altro che “soft”.

Il potere di far avanzare una linea di giudizio o di influenzare le menti di milioni si traduce fatalmente in “hard” power (del commercio o delle scelte politiche). 

La guerra in Ucraina ha non solo rilanciato il soft/hard power ma ha inoltre messo in luce quel che gli studiosi di politica documentano da qualche anno: lo scambio dei ruoli tra partiti e media sul set della politica.

La guerra ha mostrato che i media sono sempre più spettacolari e partigiani, e i partiti meno di parte.  I primi fanno l’audience dalla quale i secondi dipendono.

Questo spiega, tra l'altro, perché partiti siano diventati un terreno fertile per lo stile populista, il cui preferito slogan è che «tutti i partiti sono uguali» e vogliono dividere il popolo per meglio dominarlo. I partiti sono sempre più restii a mostrarsi di parte dunque, e si posizionano in quel luogo senza sigla e colore che è «il pubblico».

Al contrario, i media hanno assunto il ruolo dei partiti: con i talk show generano narrative partigiane, lanciano campagne e proclami, fanno schierare. 

L’inversione dei ruoli è funzionale alla democrazia dell'audience, con il risultato che, nonostante il peso dei sondaggi sulle scelte dei leader, il potere dei cittadini diminuisce.  

Da questo scambio di ruoli viene una generale perdita di potere della cittadinanza: perché i media che si fanno partigiani indeboliscono la loro funzione di controllo e monitoraggio del potere (quel che si dice contro-potere), e i partiti che si trasformano in acchiappa-audience impoveriscono la funzione rappresentativa del dar voce ai problemi dei cittadini.  

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