Da qualche mese ci si interroga su come possano convivere i buoni dati del mercato del lavoro con quelli, meno buoni, dell’andamento economico del paese. Una domanda alla quale non è possibile a oggi fornire una risposta esauriente, ma che consente di avanzare alcune ipotesi.

Quello che è certo è che viviamo in un momento interessante per quanto riguarda le dinamiche del mercato del lavoro italiano, con una serie di elementi sia congiunturali che strutturali inediti. Perché al di là della componente meramente quantitativa, che giustamente viene richiamata nella sua dimensione di record assoluto, è quella qualitativa che risulta più interessante.

Ormai da qualche trimestre, infatti, la crescita riguarda soprattutto i lavoratori a tempo indeterminato, che hanno raggiunto la cifra più alta da quando esistono le serie storiche. E stiamo assistendo parallelamente a un (lieve) calo degli occupati a termine. Ulteriore elemento qualitativo riguarda l’occupazione femminile, che ha raggiunto anch’essa record storici.

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Tutti questi dati, se visti in comparazione con gli altri paesi europei, ci inchiodano ancora agli ultimi posti (spesso proprio all’ultimo). Osservati nel contesto italiano mostrano però un importante cambiamento del nostro mercato del lavoro. Come questo sia possibile con dati di crescita così bassi è difficile da spiegare.

Una prima ipotesi è che questo andamento positivo costante sia la conseguenza della riforma Fornero che porta a una maggior permanenza temporale degli occupati over 55, che va ad accrescere lo stock complessivo di occupati. Dinamica sicuramente esistente, ma che da sola non può spiegare una crescita occupazionale che, per esempio, negli ultimi due anni ha interessato oltre 200mila giovani tra i 25 e i 34 anni.

Ulteriore ipotesi è che le imprese si trovino nelle condizioni di dover assumere di più degli ultimi anni, e soprattutto a tempo indeterminato, a causa della scarsità di offerta di lavoro (conseguenza della crisi demografica).

In passato avrebbero fatto ricorso maggiormente a tirocini e contratti brevi intercambiabili e facilmente sostituibili, mentre oggi i costi di transazione sono maggiori, con auspicabili futuri impatti positivi sui salari. A sostegno di questa tesi ci sarebbe anche il costante aumento della quota di trasformazioni di contratti da termine a tempo indeterminato.

La polarizzazione

C’è poi la possibilità che la crescita economica italiana sia maggiore rispetto a quella effettivamente stimata, così come è possibile una ridefinizione dell’allocazione degli occupati tra settori produttivi con una crescita della domanda nei servizi e nelle costruzioni (complici i bonus edilizi). Sono stati evocati anche gli impatti del venir meno del Reddito di cittadinanza, ma questo sembra piuttosto spiegare l’aumento dei disoccupati a partire da agosto e poi, con il repentino stop alla ricerca del lavoro, il forte aumento degli inattivi di novembre.

Probabile che ci sia un insieme di cause diverse che avremo modo di verificare in futuro. Quello che sappiamo a oggi è che gli ultimi dati trimestrali mostrano un aumento delle ore lavorate e una crescita di occupati con titoli di studio medio-alti.

Non sembra esserci una crescita occupazionale determinata quindi solo da lavoro poco qualificato e con poche ore, semmai il rischio è quello di una polarizzazione tra fasce basse e fasce alte che è stata ampiamente osservata in molti paesi europei negli ultimi decenni, quando l’Italia vedeva crescere quasi unicamente il lavoro a minor valore aggiunto.

Alcuni cambiamenti della struttura produttiva degli ultimi anni, anche accelerati dalla pandemia, potrebbero aver generato una maggior domanda di lavoro qualificato (almeno sulla carta, andrebbe valutato poi il mismatch) conducendoci a una situazione di polarizzazione che non avevamo vissuto e che ora si presenta. Ma il condizionale resta d’obbligo.

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