Dal vertice del G20 sull’Afghanistan non è emersa una posizione comune sulla gestione internazionale dei rifugiati, salvo l’impegno ad aiutare i paesi limitrofi nell’accoglienza dei profughi. Nessun piano condiviso d’accoglienza è inoltre all’orizzonte per l’Unione Europea, dove ad accomunare i ventisette membri è solo la preoccupazione per la difesa delle frontiere esterne.

Da un lato, ci sono i dodici paesi firmatari della lettera alla Commissione, che avanza la proposta di costruire un muro lungo i confini orientali. Dall’altro, i paesi restanti e la stessa Commissione che, pur non sposando la linea del filo spinato, stringono accordi con paesi terzi per “esternalizzare” il controllo dei flussi.

Appare molto lontano l’autunno del 2015, con la fuga di massa dalla Siria lungo la rotta balcanica, quando la morte del piccolo Alan Kurdi commosse il mondo intero, e la cancelliera tedesca Angela Merkel aprì le porte a un milione di profughi. «Wir schaffen das», ce la possiamo fare, furono le sue parole.

Perché oggi nessuno sembra più credere che l’Ue, con il suo mezzo miliardo di abitanti, abbia la capacità, nonché il compito, di accogliere chi fugge? Negli anni seguiti alla “crisi dei rifugiati”, la paura del terrorismo e la preoccupazione per l’avanzata della destra xenofoba e islamofoba hanno spinto anche i governi moderati o progressisti a sposare una linea di estrema cautela su questo fronte. Poi, è arrivata la pandemia.

La rapida diffusione del Covid-19 in gran parte del mondo ha messo in scacco l’illusione di una globalizzazione a due marce: l’estrema mobilità dei mercati contro la condanna all’immobilità degli abitanti del Sud globale.

Di fronte a un virus che si fa beffe dei confini, non sono serviti a nulla i proclami anti-immigrazione della destra populista. La pandemia ci ha consegnato con una forza senza precedenti l’immagine di un pianeta interdipendente.

Sembra allora che il nuovo desiderio di muri che emerge dalla crisi, unito al disimpegno sull’accoglienza, manifesti il rifiuto di accettare la porosità delle linee di confine, e la rivolta contro il vincolo dell’interdipendenza.

Secondo Wendy Brown, l’autrice di Stati murati, la «frenesia da fortificazione» presuppone un «soggetto divenuto vulnerabile per la perdita di orizzonti, di ordine e di identità, mentre assiste al declino della sovranità statuale».

I muri offrono una risposta illusoria a questi fenomeni psichici mentre, nella realtà, finiscono per acuire i problemi che dovrebbero risolvere, trasformando i confini in zone di violenza ed illegalità, largamente sottratte al controllo degli Stati.

Ancora, come si legge nel libro Le pietre e il potere del filosofo Ernesto Sferrazza, si può dire che il muro «produca» il migrante come «nemico, invasore, stupratore, terrorista, delinquente e criminale», cioè la figura che ne giustifica la costruzione.

Così, l’uscita dalla pandemia sembra spingere gli Stati europei (e non solo) dentro un circolo palesemente vizioso. Con il rischio di alimentare fantasie di immunità, e di renderli ancora più inadeguati ad affrontare le sfide globali. 

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