Il governo dei due presidenti, Mattarella e Draghi, è composto da una squadretta di gerarchetti minori, come direbbe Massimo Bordin, e da alcuni illustri specialisti. Sono bravi nel loro campo ma non hanno l'esperienza interdisciplinare che è necessaria all'attività del governo. Ora arriveranno anche i sottosegretari, che nella Prima repubblica chiamavamo «deputati attrezzati»: perché avevano una macchina, una segretaria, insomma un appannaggio in più.

È un governo di tregua. La sua sorgente di vita, il presidente della Repubblica, fra un anno sarà sostituita. Vedremo se un parlamento meritevole di essere sciolto, e in vita per ragioni eccezionali, riuscirà miracolosamente a creare una nuova sorgente di vita per sé e gli altri. Ma prima avremo chiaro il quadro di come sarà stata affrontata l'emergenza vitale della vaccinazione e quella della messa in moto del meccanismo di utilizzo del Recovery fund. Lo si vedrà dalle necessarie riforme. Che però sono un punto debole di questo governo a così larga maggioranza.

Di alcune riforme si parla da un secolo, altre da cinquant'anni, altre da trenta. Da un secolo, la riforma della burocrazia. Non ci riuscì l'Italia liberale, non ci riuscì Giolitti, né Mussolini, né i governi della stabilità repubblicana della Prima repubblica, né quelli dell'instabilità degli ultimi trent'anni. Della riforma della giustizia si parla da cinquant'anni, e ogni volta si scopre che le nuove norme non risolvono anzi creano nuovi bubboni. Per fortuna oggi la ministra di giustizia ha voluto osare avviare alla sua attività simbolicamente partendo dai detenuti, cioè dal punto più incostituzionale che vive nell'amministrazione della giustizia. La riforma fiscale è da trent'anni in discussione; l'iniquità è formata nel tempo, la congerie di agevolazioni e elusioni introdotte ha modificato tutta la struttura delle aliquote progressive. Queste riforme hanno bisogno di tempo. E di una grande scossa: il rinnovamento del personale. C'è da compiere una grande leva della nuova dirigenza di massa della pubblica amministrazione, quarantamila nuovi giovani dirigenti per cambiarne il clima nell'interno.

Entro luglio vedremo non certo gli effetti delle riforme ma almeno se si è messa in moto la macchina. Se no, il ricorso alle urne è fatale, obbligato.

Ho sentito la miserabilità del dibattito parlamentare sulla fiducia, pochezze in cui veniva evocato l'interesse generale ma subito dopo arrivava l'avviso "non vi illudete, ognuno di noi ha le sue posizioni da difendere, le difenderemo". Ma difenderle contro chi? Contro il paese? In trent'anni, a furia di difendere queste posizioni, le riforme non sono state fatte. Draghi ha posto lucidamente la questione della cessione della sovranità che deve consentire lo stesso tasso di controllo democratico. Questo presuppone una fase costituente nazionale in una fase costituente europea. Sembra paradossale, riduzione al ragionierismo, ma verrà dal bilancio comune: non si può gestire senza un'entità istituzionale politica comune. Se si rafforzerà l'idea dello stato sovranazionale, gli stati nazionali assumeranno il ruolo di amministrazioni regionali. Cambiano i parametri, tutti devono cambiare. Anche i giornali: si devono abituare ad essere noiosi ma insistenti: il declino delle istituzioni non può essere affidato una volta al mese a un bravo giurista, è battaglia quotidiana dei cittadini. Non saranno i costituzionalisti a salvare le istituzioni.

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