I vari cambiamenti statutari introdotti dal Movimento Cinque stelle negli ultimi anni hanno creato un tale ginepraio di norme e competenze dalle quali nemmeno un esperto come Giuseppe Conte sembra venirne a capo.  Per il Movimento si tratta di una si pensa che la prima codificazione della sue regole interne venne definita da Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio come il « non-statuto »: poche regole essenziali depositate da un notaio per definire un assetto minimo e immateriale.  Quello che doveva essere un organismo agile e fluido tutto fondato su Internet e niente sulla corporeità e materialità novecentesca, si è trasformato in una gabbia d’acciaio da cui i pentastellati, tra ricorsi giudiziari e sentenze della magistratura, non sanno più come uscire.

Il caso del M5s è indicativo di una tendenza in atto da molti anni nei partiti europei: la “giurisdicizzazione” della politica partitica. Si tratta del processo attraverso il quale i partiti riconoscono garanzie sempre più precise agli iscritti per poter avanzare rimostranze contro decisioni prese nei loro confronti dalla dirigenza e sono soggetti all’intervento della legge nelle dispute interne.

Una scissione dopo l’altra

Tutta la storia del socialismo italiano – e dopo l’ ‘89 anche del post-comunismo - è fattata da separazioni e riunificazioni, con al centro del contendere la proprietà delle sedi e di altri beni del partito e, dopo l’introduzione del finanziamento pubblico (1974), anche la spartizione delle entrate.  Quando il Pci si trasformò in Pds, un gruppo di nostalgici, proprio al congresso di fondazione del nuovo partito, a  Rimini, nel gennaio 1991, fondò Rifondazione comunista (gli scissionisti avevano già allertato un notaio per ratificare il nuovo statuto) e iniziò una battaglia legale sul controllo di tutte le risorse del vecchio partito.

Ben più aspro è stato il conflitto che ha devastato gli ex-democristiani del Partito Popolare quando, nel 1995, si spaccarono tra la componente moderata e filo-berlusconiana del segretario Rocco Buttiglione e quella ulivista. Lo scontro portò a votazioni a ripetizione negli organi nazionali per definire la linea politica, fino alla separazione definitiva.

L’intervento dei tribunali nel dirimere i conflitti interni ai partiti si è ampliato negli ultimi tempi. Ma quanto è opportuno che l’autorità giudiziaria intervenga, e interferisca, così direttamente? Questo dipende dall’esistenza o meno di leggi che definiscano nei dettagli l’attività dei partiti. La normativa tedesca indica obblighi, adempimenti e garanzie che ogni formazione deve assicurare, dalla frequenza delle riunioni e dei congressi, al numero massimo di partecipanti non-eletti (di diritto) agli organismi collettivi , dalle norme per l’uso del finanziamento pubblico alle modalità con cui gli iscritti possono decidere sulle scelte del partito, fino all’indicazione dei diritti dei membri e della loro protezione da eventuali abusi dei dirigenti.

Nel caso tedesco l’intrusione della legge, e quindi dello stato, è massima. E secondo alcuni eccessiva. Finché non ci sono dubbi sulla indipendenza dei giudici e sulla prevalenza di uno spirito pubblico democratico i partiti non corrono pericoli di intromissioni indebite. Ma dove queste garanzie vengono meno, allora i partiti rischiano di essere appesi alla discrezionalità di un organismo esterno e perdono l’autonomia che li dovrebbero caratterizzare.

Il caso tedesco è estremo per il peso del passato, e si ispira al la teoria della “democrazia militante”, una spada a doppio taglio che da un lato dovrebbe proteggere il sistema politico dai pericoli di chi gli è nemico, ma, dall’altro finisce per limitare il perimetro del dissenso del partito stesso nei confronti del regime politico in cui esso opera.

I pericoli nascosti

In paesi dove le leggi sui partiti sono vaghe come nel caso italiano è ancora più opinabile la ratio di intervento esterno della magistratura, soprattutto laddove sorgano conflitti interni. Per questi dovrebbero essere sufficienti gli organi di garanzia del partito stesso che infatti la nuova legge sulle organizzazioni politiche prevede e alla quale però il M5s ha solo parzialmente acceduto adottando commissioni di probiviri per difendersi dal ricorso all’esterno di coloro che ritenevano conculcati i loro diritti in quanto iscritti.  Tuttavia, un partito politico dovrebbe godere di una certa sfera di autonomia interna. Perché un intervento verso una formazione politica in radicale contrasto con il mainstream dominante può creare un problema di democrazia a livello di sistema. I conflitti interni devono risolti nell’ambito del partito non portati fuori anche perché la tanta invocata democrazia nei partiti è, come diceva Giovanni Sartori, assai meno rilevante del pluralismo, della presenza di più partiti che competono liberamente, tutti sullo stesso piano.

© Riproduzione riservata