Inflazione ai livelli di 40 anni fa, rischio di recessione e razionamento del gas, debito pubblico a 150 per cento Pil: pensare in questo momento alla struttura delle nostre imprese sembrerebbe inutile.

Ma la capacità di crescita di un paese dipende alla lunga dalla sua struttura produttiva e tre eventi recenti - la fusione di Autogrill con la svizzera Dufry, il cloud nazionale e la scissione della rete Tim - suggeriscono delle considerazioni sul tema della “nazionalità” dei nostri grandi gruppi, spesso centrale per la politica.

La strategia della leadership di nicchia, che ha caratterizzato il successo di molte aziende italiane, è sempre meno vincente: economie di scala, globalizzazione e digitalizzazione aumentano la dimensione del mercato rilevante per ogni azienda.

Non conta la nazionalità

Poiché l’Italia è un piccolo mercato rispetto al mondo, e cresce poco, fusioni e acquisizioni con entità estere sono la strada obbligata per le aziende italiane. Ma in queste evenienze, invece di guardare alle prospettive dell’azienda, l’attenzione mediatica si focalizza sull’ “italianità” del nuovo gruppo.

Eppure, la nazionalità di una multinazionale è un concetto labile. Non c’è correlazione tra nazionalità del socio di maggioranza e successo imprenditoriale, e la crescita per via esterne comporta necessariamente una dispersione dell’azionariato.

La questione è irrilevante anche ai fini fiscali: le imprese, a prescindere dalla loro sede legale, pagano in Italia le imposte sul reddito prodotto in Italia.

E se pensiamo a ricavi e numero di addetti, in una multinazionale, anche se “italiana”, il peso dell’Italia si riduce in linea con quello della nostra economia nel mondo; e la capacità produttiva, oltre a distribuirsi nel mondo tramite le filiere di produzione, tende a collocarsi dove ci sono i clienti, specie se la crescita avviene tramite acquisizioni.

Per esempio, il mercato italiano di EssilorLuxottica, Campari, Ferrero e Stellantis pesa, rispettivamente, per il 4, 19, 12 e 7 per cento dei ricavi totali (stime Factset), una frazione del peso del mercato americano, il loro principale.

Nella fusione di Autogrill con Dufry (leader nel settore duty free) si è enfatizzato come Edizione (Benetton) ne sarà il principale azionista stabile (con il 20-25 per cento) in ossequio alla sensibilità sulla nazionalità delle imprese.

Di fatto è Dufry che acquista Autogrill da Edizione, che riceve in cambio azioni della società svizzera, per poi lanciare un’offerta pubblica totalitaria sulla società italiana, che cessa di essere quotata in Borsa.

Ma Dufry ha sede e quotazione in Svizzera, e fornirà presidente esecutivo, amministratore delegato e direttore finanziario: l’azionista principale sarà pure italiano e l’ex amministratore delegato di Autogrill gestirà le attività americane del gruppo, ma di fatto il nuovo gruppo è svizzero, non italiano.

Autogrill non era italiana

La questione dell’italianità è però irrilevante. Il mercato principale di Autogrill erano già Usa e Canada (45 per cento dei ricavi rispetto al 33 in Italia).

L’ulteriore espansione all’estero in un segmento a più rapida crescita (i movimenti via aereo crescono più di quelli via terra, specie post covid) e dai margini più elevati (quasi doppio il risultato operativo sul fatturato di Dufry negli ultimi 8 anni) era la strategia logica e obbligata per Autogrill.

La società era nata dalla fusione di Pavesi, Motta e Alemagna ai tempi dell’Iri.

Con la privatizzazione del 1995 il gruppo ha innovato prodotti e distribuzione, crescendo prima in Italia e in Europa, per poi espandersi nel Nord America, e con l’acquisizione di World Duty Free nel 2008 diventando così il primo operatore aeroportuale al mondo. Un grande storia di successo.

Nel 2015 però vende World Duty Free proprio a Dufry, dopo averne scisso le attività. Ma essendosi privata del segmento con maggiori potenzialità di crescita Autogrill fa oggi il percorso inverso venendo acquisita dalla stessa Dufry.

L’unico cambiamento degno di nota è che ora al comando ci sarà il management di Dufry. Al di là del fatto che si possa fingere che il nuovo gruppo sia ancora “italiano”, per il futuro della società Autogrill la strada decisa è quella giusta.

Lo strumennto dei governi

L’enfasi sulla “nazionalità” delle imprese, particolarmente acuta in Italia, è dovuta al fatto che i governi le considerano uno strumento per attuare la politica dei redditi, ritenendo che la “nazionalità” italiana le renda maggiormente sensibili alla moral suasion della politica nostrana.

Distribuzione del reddito, welfare e sostegno dell’occupazione sono tra i compiti primari della politica, ma l’uso delle imprese a questo scopo riduce la loro competitività, danneggia le finanze pubbliche (perché le imprese chiedono contropartite sotto forma di aiuti pubblici), scoraggia gli investimenti esteri nel paese e, alla fine, sull’occupazione ha effetti effimeri.

Ma per la politica, la difesa dell’italianità giustifica la bulimia dello stato azionista, e la sopravvivenza di un sistema misto pubblico-privato fonte di distorsioni e inefficienze.

Il caso del cloud

Un esempio è la recente gara per i fondi del Pnrr destinati al Cloud Nazionale (dovrebbe rendere più efficiente e sicura la gestione dei dati delle Pubbliche Amministrazioni) e alla digitalizzazione del paese (fibra e 5G); che però sta creando un coacervo di interessi che rischia di danneggiare la competitività del paese.

Lo scopo non dichiarato è dare i fondi del Pnrr ad aziende “italiane”, meglio ancora se il socio di controllo è lo stesso Stato che eroga i fondi (e magari le regolamenta).

Bisogna però rispettare il divieto europeo agli aiuti di stato, diventato ormai una formalità visto che obiettivo della norma era evitare che l’intervento pubblico distorcesse la concorrenza nel mercato unico dei capitali, cioè l’opposto di quello che si vuole fare con i fondi del Pnrr. 

Il Cloud nazionale, inoltre, si fonderà su tecnologia americana: Amazon, Microsoft e Google sono leader indiscussi in questo campo, ma per l’”italianità” quello che conta è la facciata.

Comunque, come da copione ha vinto la cordata eterogenea di società a controllo pubblico formata da Leonardo, Sogei, Cdp Equity (poco importa che il Governo Cinese sia socio col 35 per cento, alla faccia della sicurezza nazionale) e Tim, dove lo Stato è socio anche se la quota principale è della francese Vivendi.

Ma in Tim si guarda avanti visto che la società ha già deliberato la scissione della rete in NetCo, destinata poi fondersi con Open Fiber sotto l’ombrello dello Stato (un tema già trattato su queste pagine).

A dire il vero aveva vinto un’altra cordata, ma il bando prevedeva che, uguagliando il prezzo offerto, avrebbe comunque vinto la cordata pubblica.

Assalto italiano al Pnrr

Stesso copione per i fondi Pnrr per la digitalizzazione dove competono, in teoria, ancora Tim e OpenFiber. Sepolta la normativa sugli aiuti di stato, è tutto da dimostrare che il controllo pubblico delle imprese che fanno incetta dei fondi Pnrr garantisca la maggiore efficienza nell’uso di queste risorse.

Ma è facile immaginare che la minore concorrenza che il dominio delle imprese a controllo pubblico indotto dalla difesa dell’”italianità” (come insegna la vicenda del Cloud nazionale) faccia felici i tanti fondi e azionisti privati (e pure il governo cinese) che delle nostre imprese a capitale misto pubblico/privato detengono la maggioranza del capitale.

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