Ma quante facce ha lo stato italiano? E quante ne mostra, o ne nasconde, in questa primavera che si prepara a celebrare i morti siciliani del 1992? Il processo sulle “deviazioni” intorno all'uccisione di Paolo Borsellino ce le presenta tutte, con una naturalezza così esagerata che fa paura.

Perché c'è quella del pubblico ministero Stefano Luciani ma ci sono anche quelle dei poliziotti imputati, ci sono le facce dei magistrati che consapevolmente o inconsapevolmente hanno ceduto ai giochi sporchi e quelle altre ancora dei loro colleghi che non li hanno mai voluti giudicare per quel male agire. E' sempre stato italiano, un pezzo lontano dall'altro, un pezzo contro l'altro.
L'aula del Tribunale di Caltanissetta, dove è in corso la requisitoria contro gli uomini in divisa che avrebbero contribuito a mettere in scena “il più grande depistaggio della storia d'Italia”, è un osservatorio privilegiato che consente di decifrare le tante forme che possono prendere le istituzioni nel nostro paese, oggi come trent'anni fa.

La verità disperatamente cercata e le menzogne che ancora s'inseguono, la giustizia viva e la giustizia morta. Di tempo n'è passato tanto ma quasi niente è cambiato. «Dopo trent'anni è ora di parlare», incita il pubblico ministero in aula. Nessuno parla, solo un cupo silenzio.
E cosa potrebbero mai dire i poliziotti imputati a loro discolpa, come potrebbero modificare il copione ricevuto tre decenni fa per sviare indagini e addirittura trasformare un piccolo malavitoso di borgata in un boss a conoscenza dei più grandi segreti di Cosa Nostra?

Dopo i depistaggi

Non c'è una falla, non c'è un'incrinatura nella versione originaria spacciata sugli esecutori della strage, non c'è ripensamento né vergogna su come fu indotto al pentimento e all'indottrinamento Vincenzo Scarantino, il malacarne usa e getta sfoderato per disvelare il mistero di Borsellino saltato in aria. Tutto è scritto e immodificabile. Perché uno stato italiano non necessariamente deve rispondere a un altro stato italiano. Né dentro e né fuori a un'aula di giustizia.
Nemmeno in un luogo simbolo come Pianosa e il suo carcere speciale dove l'aberrante vicenda è cominciata, dove il questore Arnaldo La Barbera e altri suoi emissari sono entrati per minacciare, torturare e “istruire” a dovere Scarantino.

Pianosa è il posto che ha segnato una svolta significativa della lotta che lo stato ha combattuto contro la mafia (dopo le stragi c'era sempre un elicottero con i serbatoi pieni e pronto a decollare quando un detenuto dava segni di crisi ed era pronto a collaborare), ma Pianosa è anche il posto che è diventato il laboratorio di un altro stato per intossicare l'inchiesta sul massacro di via D'Amelio.
C'è qualcos'altro da aggiungere sul depistaggio orchestrato sul cadavere di Paolo Borsellino. In questi trent'anni centinaia e centinaia di mafiosi hanno salto il fosso, alcuni hanno raccontato tanto e altri hanno raccontato poco. Ma non c'è un solo rappresentante dello stato che abbia confessato qualcosa, nemmeno il più piccolo dettaglio.

Per Cosa Nostra il muro di omertà è crollato, per lo stato no.
Nelle prossime settimane conosceremo il verdetto del dibattimento sulle trame che hanno scaraventato Scarantino al centro dell'intrigo ma già ora, e al di là di quello che sarà la sentenza, abbiamo sufficienti elementi per capire come siano andate le cose. Male, malissimo.

L'indagine sull'indagine che ha scoperto la messinscena, la clamorosa revisione del processo, la scarcerazione dei sette imputati condannati all'ergastolo dopo le imbeccate velenose. Un'assurdità.

Eppure un piccolo esercito di magistrati, fosse anche per negligenza, dalla scabrosa avventura n'è uscito indenne. Sono tutti al loro posto.

L'amaro commento di Fiammetta Borsellino, una delle figlie del procuratore: «Non ci sono stati neanche provvedimenti disciplinari. Anzi, chi ha sbagliato oggi ricopre ruoli apicali all'interno dell'ordine giudiziario». Fiammetta Borsellino, la settimana scorsa, ha ricevuto una telefonata del procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi.

Si aspettava notizie sulle “colpe” di alcuni giudici che hanno ciecamente creduto ai poliziotti e al loro Scarantino, il magistrato l'aveva però chiamata per invitarla a un convegno. Lei ha annunciato che, sino a quando non si farà chiarezza, non parteciperà a iniziative istituzionali. Un segnale da non sottovalutare per le prossime commemorazioni di Capaci e via D'Amelio, cerimonie e fanfare forse non bastano più.
 

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