«Nessun periodo storico, nessuna società che conosciamo ha mai parlato di vittime come noi. (…) Siamo tutti attori e testimoni di una grande prima antropologica».

Quando René Girard scriveva queste parole nel 2001, il mondo non aveva ancora cominciato a scambiarsi accuse sui social e Donald Trump era solo un abile imprenditore che rischiava il carcere per bancarotta senza che si evocasse per questo alcuna congiura contro di lui.

Il filosofo, però, aveva individuato una tendenza storica e, vent’anni dopo, la società sembra raccontare sé stessa sempre più nella veste di “vittima”. Una prassi che non è più esclusiva dei lamenti di un politico incriminato o riservata alle legittime rivendicazioni di una minoranza perseguitata.

Oggi dichiararsi vittima è diventata la prima linea di difesa anche di chi è accusato proprio di atteggiamenti discriminatori, mentre assistiamo ai reclami di parti della società, a lungo viste come dominanti, che si ritengono a loro volta vittime di “egemonie culturali” da cui sono chiamate a difendersi. Perfino le nazioni scelgono di ricorrere a narrazioni di persecuzione, dalla Russia che si considera parte lesa in una guerra che ha iniziato, fino a partiti che chiedono leggi a tutela dell’identità nazionale, contro l’invasione di influssi culturali, tradizioni e idiomi stranieri.

In cerca di riscatto

Non entreremo qui nelle ragioni di chi, più o meno legittimamente, sente di essere vittima, ma c’è un punto sostanziale da rimarcare: poter denunciare di essere offesi o perseguitati è una delle grandi conquiste della nostra civiltà contemporanea. Con grandi sacrifici e attraverso secoli di soprusi siamo passati dal vae victis della società classica, che considerava la persecuzione la giusta pena del più debole, a empatizzare con chi sente di essere oppresso.

E non è un progresso da poco, come sottolinea lo stesso Girard: questa “grande prima antropologica” ha fatto sì che essere vittima non sia più motivo di vergogna, ma una maniera legittima di manifestare le proprie ragioni e cercare un giusto riscatto davanti alla comunità. Sarebbe stato molto peggio vivere in una società in cui né Trump né i figli di George Floyd potessero chiedere giustizia.

La legge del più forte

Ma c’è un momento in cui anche il sentimento di empatia deve lasciare il posto alla ragione. La nostra civiltà, che ha scelto di dare voce a chi si sente calpestato, ha anche maturato gli strumenti per individuare quali siano le misure con cui riparare a un effettivo torto: le istituzioni giuridiche nate dalla nostra etica della giustizia.

Tribunali, corti penali, persino organismi sovranazionali sono stati investiti dell’autorità per rispondere all’appello della vittima e tacitare chi non ha i titoli per definirsi tale. Oggi, tra le garanzie della nostra coesione sociale, dovrebbe esserci proprio la fiducia in un sistema che intende perseguire la giustizia a tutela di ognuno. È il passaggio che ci ha portati da una società dove Socrate beveva stoicamente la cicuta a una dove avrebbe fatto ricorso in Cassazione.

Nessuna legge, dunque, ci dovrebbe vietare di criticare le sentenze e persino, in un crescendo difensivo, di proclamarci vittime di chi ci sta giudicando: è nel nostro diritto. Ma accettare quel diritto significa anche accettare il suo limite, oltre il quale dichiararsi perseguitati diventa sempre meno mezzo di denuncia, e sempre più arma di vendetta. Un limite che, solo se ben incardinato nel nostro sistema sociale e culturale, può scongiurare il rischio che si rinunci alla fiducia in quelle istituzioni capaci di evitare il circolo vizioso di revanscismi continui.

Altrimenti, proseguendo il pensiero di Girard, il pericolo sarebbe non tanto di tornare a un tempo dove vige la legge del più forte, ma di costruire un mondo dove avrà giustizia solo chi saprà far sentire più forte il suo pianto.

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