Dal discorso di Capodanno del presidente della Repubblica nessuno si aspetta mai sorprese. Conforto, questo sì, il calore rassicurante dell’autorevolezza paterna.

Il piacere fetale della gerarchia che, manifestandosi nella sua forma più bonaria, ci assicura che nonostante tutto un ordine esiste, e la nostra pur fragile spensieratezza è preservata.

La sorpresa non è ammessa: nessuno la vuole, nessuno l’aspetta.

Io, però, questa sorpresa mi limito a sognarla. È una puerile forma di fantasia che ad ogni capodanno continuo a coltivare. Nel mio piccolo sogno, le parole del presidente non sono le solite dovute e tutto sommato prevedibili frasi di riepilogo e di augurio.

No, quest’anno il nonno degli italiani non rassicura più. Nel mio sogno, il presidente ha per noi solo parole terribili.

Ogni retorica del bene salta in aria, ogni dogmatico ottimismo scompare. Al posto del benaugurante discorso scritto dai suoi ghost, il Presidente legge un truth speech di feroce durezza. Se l’è scritto da solo, di suo pugno. Il motivo non c’è, se non una folle, senile, dirompente smania di verità.

Sogno che il presidente dica ai giovani: comprendo la vostra disperazione, perché non c’è speranza.

Sogno che dica agli ambientalisti, ai manifestanti, ai militanti: i vostri sforzi sono inutili, perché la macchina non può più fermarsi né sterzare.

Sogno che, rivolgendosi alle donne in età fertile, dica loro che lo Stato che strenuamente le invita a procreare vuole da loro solo carne da contribuzione fiscale, ma in cambio non è disposto a dar loro nessun vero strumento di emancipazione.

Sogno che dica agli anziani e ai pensionati (che, a differenza sua, poveretto, non lavorano più): maledetti, siete la generazione più invidiata della storia, vi siete mangiati tutto e ancora continuate a tenervi strette le leve del comando.

Sogno che dica: siamo come un giocatore di poker indebitato e ottuso, che continua a giocare con soldi non suoi pur di non alzarsi dal tavolo e ripensare la sua vita da zero.

Sogno che dica alle famiglie, ai lavoratori, ai risparmiatori: siamo su un treno lanciato verso il nulla, e nemmeno io so chi o cosa sia al comando, quali forze stiano muovendo realmente la storia.

Sogno che ci dica: il liberismo ha vinto la sua guerra secolare, e la sola libertà che ci ha lasciato è quella del consumo.

Sogno che ci dica: cari concittadini, quello che ci resta sono solo i nostri tentativi di aggregazione umana, le nostre peripezie di salvezza, i piccoli furori del piacere che ci siamo scavati nel mercato o a margine di esso: le nostre personali, fantasiose arti della gioia.

Il minuto di terrore

Sogno che dopo il suo augurio finale, per qualche minuto nelle nostre città non si sentano più tintinnii di bicchieri, risate e rosolii di cotechini, ma qualche minuto di sbigottimento, se non di vero terrore: un minuto in cui l’Italia, trasformata per un attimo nel paese tragico che non ha mai saputo essere, contempli il proprio disastro.

Sogno che quella confusione liberi, anche solo per qualche secondo, un’energia diversa. Una dolorosa libertà immaginativa. Un’allegria oscena e creativa.

Quell’imprevedibile forza di novità che scaturisce dalla meno italiana fra tutte le virtù: la sperdutezza.

Ma questo ovviamente è solo un sogno. Una fantasia più o meno letteraria: niente di simile potrà mai succedere. Però il sogno resta, anche quest’anno.

Come ha scritto Montale in Prima del viaggio: «Un imprevisto / è la sola speranza. Ma mi dicono / che è una stoltezza dirselo».

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