Il 10 dicembre 1948 fu adottata la Dichiarazione universale dei diritti umani: 30 articoli che esprimevano la visione di un mondo in cui gli orrori della Seconda guerra mondiale non avrebbero più dovuto ripetersi
Oggi è la Giornata internazionale dei diritti umani, in cui si ricorda l’adozione – il 10 dicembre 1948 – della Dichiarazione universale dei diritti umani: 30 articoli che esprimevano la visione di un mondo in cui gli orrori della Seconda guerra mondiale non avrebbero più dovuto ripetersi.
Le parole d’ordine del 1948 erano “Mai più”. Quelle del 2024 potrebbero essere “Una volta di più”.
Un decennio aspro
Stiamo vivendo un decennio di crisi dei diritti umani: iniziato col devastante attacco globale al diritto alla salute causato dalla pandemia da Covid-19, che ha usato come corsia preferenziale lo smantellamento dei servizi di salute pubblica, le disuguaglianze economiche e gli assembramenti involontari, come le carceri e i centri per il rimpatrio dei migranti, proseguito con la guerra di aggressione della Russia all’Ucraina, il cui svolgimento ha superato i mille giorni, e poi coi crimini commessi da Hamas nel sud d’Israele il 7 ottobre 2023 e i 14 mesi di risposta militare israeliana, di cui pochi giorni fa Amnesty International ha denunciato l’intento genocida.
La condotta delle operazioni militari nei due conflitti più noti, come in quelli dimenticati del Sudan e del Myanmar, sta minando alle fondamenta quel sistema internazionale di protezione dei diritti umani che aveva visto la luce proprio il 10 dicembre 1948 e che si era sviluppato attraverso le Convenzioni di Ginevra – la cui regola numero uno è “I civili non si toccano”, e abbiamo visto quanto e come siano toccati – e una lunga serie di trattati a tutela di singoli diritti.
Perché parlare di crisi dei diritti
La parola “crisi” indica un periodo storico diverso dal precedente. Chi si occupa da tempo di diritti umani trova molte analogie tra l’attuale decennio e l’ultimo dello scorso secolo: iniziato e terminato nei Balcani, attraversato da due genocidi (uno proprio lì, in Bosnia nel 1995, l’altro un anno prima in Ruanda), dalle guerre di Cecenia, da quella all’Iraq a seguito dell’occupazione del Kuwait, il conflitto interno dell’Afghanistan, e altro.
Ma proprio negli anni Novanta del XX secolo ci fu una risposta istituzionale: la nascita della giustizia internazionale, dapprima coi due tribunali ad hoc per il Ruanda e l’ex Jugoslavia, poi nel 1998 con l’approvazione a Roma dello Statuto della Corte penale internazionale. La giustizia sovranazionale come strumento di lotta all’impunità, dunque. Come alla fine del secolo scorso i due tribunali speciali emisero condanne per i gravissimi crimini, genocidio incluso, commessi nell’ex Jugoslavia e in Ruanda, così in questo decennio la Corte penale internazionale è intervenuta per i crimini di guerra e i crimini contro l’umanità commessi in Ucraina, in Israele e a Gaza.
Che la giustizia internazionale possa essere efficace e incisiva lo dimostra il fastidio che i suoi mandati di cattura provocano. Non c’è peggiore “doppio standard” di quello che plaude alla Corte quando accusa i nemici e la delegittima quando lo fa con gli amici. Per non parlare dei commentatori che smantellano il motto, “Non c’è pace senza giustizia”, che ispirò proprio la nascita della Corte, per i quali quel “non” è di troppo.
Oltre alle guerre, osserviamo un arretramento generale della tenuta dei diritti umani: secondo l’ultimo Rapporto di Amnesty International, sono almeno 85 gli stati in cui le proteste pacifiche sono del tutto impedite, represse con la forza o criminalizzate da leggi liberticide: quest’ultima caratteristica riguarderà sempre di più l’Italia.
Ma, se non sono crollati negli anni Novanta o di fronte agli asseriti “tempi nuovi” resi necessari dall’attacco alle Torri gemelle del 2001 e dalla successiva “guerra al terrore”, i diritti umani resisteranno anche all’attuale assalto. All’inizio di luglio gli studenti scesi in piazza in Bangladesh per protestare contro una legge che avrebbe riservato una quota sproporzionata di impieghi nell’amministrazione pubblica ai figli dei veterani della guerra d’indipendenza del 1971 avevano messo in conto di pagare con tanto sangue il loro coraggio. Ma non avrebbero mai immaginato di ritrovarsi, neanche un mese dopo, intorno al nuovo primo ministro ad interim: un Nobel per la pace, Muhammad Yunus.
Nonostante gli orrori di questo inizio di secolo, è quell’immagine arrivata dal Bangladesh che dobbiamo conservare e proteggere. Ci dice che l’utopia, quel sogno collettivo di un mondo in cui i diritti siano uguali e rispettati per tutte e tutti, resiste ancora.
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