Caro direttore,
Davide Assael si è chiesto su queste pagine se la definizione “guerra di Netanyahu” da me utilizzata per definire questa seconda fase della guerra di Israele a Gaza, quella dell’invasione di terra e della minacciata conquista territoriale di Rafah, non fosse “riduzionista”. Con ciò confutando la «semplicistica idea che la reazione israeliana si riduca ad un sentimento di vendetta, anche fosse quella dell’indemoniato Netanyahu assediato dai processi».

Della tesi di Davide Assael ho ripreso la frase principale, ma ovviamente il suo ragionamento è in un contesto più largo. Tanto che continua definendola «una tesi pericolosissima di questi tempi di risorgente antisemitismo». Pericolo che avverto anche io e su cui concordo, peraltro.

E da cui vorrei partire. Io e Assael condividiamo infatti il punto di vista pro Israele, ma veniamo da diversi vissuti. Diversi contesti che mi suggeriscono due osservazioni.

Differenze

La prima è di metodo. Mi posso permettere il lusso di un'analisi più obiettiva, perché sono più distaccato, lontano se volete. Assael probabilmente soffre in prima persona, e magari ha famiglia in Israele, e come mi ha detto una mia amica israeliana «sai, è differente come si percepisce la guerra quando ti piovono razzi sulla testa tutti i giorni...».

Ecco qui, secondo me, la nostra differenza più grande sulla definizione di questa ultima fase della guerra. E non certo sulla doverosa azione militare di difesa per ristabilire la deterrenza fatta con le forze speciali e fino all'invasione di terra. Il nostro diverso vissuto cambia la percezione della realtà esterna anche nell’analisi. Ne facciamo sostanzialmente una questione di priorità.

Diciamo che a Assael è più difficile, comprensibilmente, il lusso del cinismo della fredda politica mentre a me il privilegio viene concesso. E la questione non è politica, perché il suo trauma è lo stesso di tutta la sinistra israeliana colpita, “tradita” quasi, trucidata in prima persona nei kibbutz al confine con Gaza, ed è lo stesso di tutta Israele. Una questione che proprio per questo diviene politica nella definizione delle priorità belliche.

Cosa che, come sanno tutti i tattici e gli strateghi militari costituisce il “core business” della pianificazione di una guerra vincente. Questo trauma – pianificato proprio per questo da Hamas – costituisce oggi, a mio avviso, l’ostacolo più grande affinché Israele esca più forte e non più debole da questa guerra. Da cui non uscirà se non almeno affiancando la politica – affrontando la questione palestinese – all’uso delle armi, e quando possibile sostituendole.

La seconda notazione è di merito. Mi sembra che la differenza su che tipo di guerra sia quella di Israele adesso, se solo di Netanyahu oppure no verta su un punto di analisi fondamentale: che cosa sia Hamas di Gaza (perché esistono diverse Hamas, e la leadership dell'interno è in rotta con quella dell'esterno, per dirne una).

La guerra diventi politica

EPA

Se sia Hamas-Isis, come dice analiticamente sbagliando un mio amico colonnello della riserva (colonna delle manifestazioni contro Netanyahu per un anno intero, colpito in prima persona perché kibbutzim) e come furbescamente dice Netanyahu. Dunque un attore solo genocidario, non radicato nel popolo e interessato solo all'Armageddon contro i kuffàr (infedeli in arabo) oppure no.

Io penso di no, sulla base di testi, dello studio della personalità di Yaha Sinwar, e sull'analisi politica di proclami e tendenze. Anche di quella di Hezbollah e degli Houthi, che se si vuole sono movimenti islamisti affini, anche se sciiti (anche se questo non conta nel confronto con Israele, conta solo quando la lotta si sposta dentro la civiltà islamica).

Magari lo fosse, sarebbe paradossalmente più semplice. Perché dico questo, ma se ne può discutere? Perché, sostanzialmente, le dinamiche politiche dei movimenti islamisti – quali Hamas, per esempio – sono del tutto panislamiste e antinazionali quando devono conquistare il potere, ma poi, conquistandolo, si "nazionalizzano", ed Hamas è dentro questa logica, come lo è Sinwar, che costituisce la nuova generazione dopo Rantisi.

Dentro quindi un contesto retorico ancora forse "panislamista" in realtà le logiche politiche implicite ma potenti – come l'attacco del 7 ottobre, che è stato contro Israele come nazione e non contro gli ebrei in quanto tali, dato che per esempio non sono stati risparmiate nella violenza nemmeno le donne arabe ma israeliane, anzi "punite" in quanto "traditrici" – hanno incorporato e stanno incorporando una crescente quota di "nazionalizzazione" dell'atto di guerra di Hamas.

Perché i movimenti islamisti quando vanno al potere e vincono, tendono a nazionalizzarsi perché si devono radicare nel popolo dove si trovano. Come è successo a Hizballah, e poi agli Houthi. Di qui l'innestarsi di dinamiche politiche del tutto differenti da quelle che dipinge Netanyahu, che da campione della destra messianica non ha soluzioni – appunto – per vincere un confronto militare che si fa anche politico, come quello portato avanti da un campione "nazionale" come Hamas, seppur in nuce.

Disfarsi di Netanyahu è dunque condizione primaria per poter vincere la guerra. Che si vincerà solo quando diventerà politica.

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