Il mio ultimo articolo riguardo la formula, secondo me riduzionista, di guerra di Benjamin Netanyahu ha suscitato in alcuni analisti che stimo come Fabio Nicolucci alcune perplessità che mi suggeriscono di definire meglio il mio pensiero. Con quanto scritto volevo solo puntellare alcuni principi.

Primo: confutare la semplicistica idea che la reazione israeliana si riduca ad un sentimento di vendetta, anche fosse quella dell’indemoniato Netanyahu assediato dai processi. Tesi pericolosissima di questi tempi di risorgente antisemitismo per i pregiudizi atavici che ripropone. Ricordo che abbiamo avuto il cardinal Ravasi in prime time televisivo riesumare come nulla fosse la legge di Lamech, il figlio di Caino che predica una vendetta settantasette volte superiore all’offesa subita.

Il tutto sotto gli occhi ammirati di Massimo Gramellini e condito dal videomessaggio di Roberto Vecchioni che riaffermava il monopolio cristiano dell’amore. Robe da Concilio di Trento.

Islamofobia e russofobia

Insomma, ce n’è abbastanza per preoccuparsi senza dover scorrere quella pattumiera che sono i commenti social. Le stesse aberranti semplificazioni che abbiamo visto all’opera in questi anni di dilagante islamofobia e, più di recente ancora, di russofobia. Secondo: affermare il diritto di Israele a ripristinare la propria sicurezza.

In questi mesi si è sentito di tutto, persino il parallelo con Monaco 1972, quando, in risposta all’attentato palestinese contro la squadra israeliana nel villaggio olimpico, Israele organizzò un commando del Mossad col compito di eliminare i terroristi ovunque si trovassero per ottenere un effetto di futura deterrenza.

Il parallelo non regge, i due eventi sono incommensurabilmente diversi. Oggi si tratta di ridare sicurezza a tutto il confine sud, ora trasformato in una zona desertica costellata di tombe. Si tratta di un conflitto territoriale con il nemico che si vede all’orizzonte.

Terzo: descrivere, proprio per amor di analisi, il sentimento diffuso nello stato ebraico, piaccia o non piaccia. Detto questo, io non mi iscrivo affatto a questo coro, che comprendo e che giustifico in una logica di guerra che il 7 ottobre ha raggiunto un’altra scala per colpa dell’efferato attacco di Hamas, le cui motivazioni, a parte per qualche sprovveduto (o sprovveduta), non c’entrano nulla con il sacrosanto diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese, che nessuno come quel gruppo terroristico ha diviso e indebolito.

Reagire diversamente

Capisco bene lo sforzo titanico di contrastare una valanga quando è ormai scesa a valle, e storica resterà la responsabilità del governo in carica di essersi fatto trovare così scoperto per assecondare mire espansionistiche in Cisgiordania, ma Israele poteva e doveva reagire in altro modo, sfruttando, appunto, il nuovo quadro mediorientale tracciato dagli Accordi di Abramo.

Se appare irrealistica una replica della coalizione anti-Isis come paventata in una fase da Macron (quale paese arabo avrebbe potuto affiancare Tsahal nelle operazioni militari a Gaza?), spazio per il coinvolgimento del mondo arabo ce n’era.

Anzitutto perché Hamas si iscrive nell’ampia lista dei nemici comuni. Forse non si è compreso che i carri armati egiziani schierati al confine con Gaza, spuntati già all’indomani del 7 ottobre, servono come deterrenza verso i profughi palestinesi, non verso l’esercito israeliano che non ha alcuna intenzione di attaccare il paese con cui ha firmato la pace nel 1979.

Da sempre da quelle parti funziona l’equazione palestinese=terrorista e/o pericolo di destabilizzazione. Israele doveva e poteva chiedere ai paesi arabi con cui aveva già stretto gli accordi, i primi a telefonare al premier per esprimere solidarietà, una condanna unanime dell’attacco, descrivendo alle proprie opinioni pubbliche allevate a pane e antisionismo la verità: l’attacco è sul suolo israeliano, ma è rivolto a noi e alle prospettive di una pacificazione dell’area.

Guerra permanente

Per tenersi il proprio feudo a Gaza, Hamas è disposta a destabilizzare le vostre vite tenendoci in un clima di guerra permanente. Israele doveva e poteva seguire Biden, che sarà pure smemorato e gaffeur, ma il mestiere e il contesto li conosce assai bene.

Sarebbe stata l’occasione per seguire il famoso detto cinese e trasformare la crisi in opportunità. Non lo ha fatto perché impegnato in un conflitto interno alimentato dall’orrenda figura di Benjamin Netanyahu.

Spero ancora che ciò possa accadere, ma di fronte a una carneficina a Rafah, i paesi arabi dovranno pur fare qualcosa, se no rimarrà l’Iran a rappresentare le masse musulmane, replicando quanto già visto con i palestinesi di Gaza.

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