Secondo Giorgia Meloni il suo governo ha aumentato le spese per la sanità. Ciò è falso, se solo si considera che i cittadini non ne hanno recepito benefici. Basta considerare i tempi delle liste d’attesa, non solo per visite ed esami diagnostici, ma anche per interventi chirurgici. In più c’è l’annuncio dell’uscita della Calabria dalla gestione commissariale della sanità, dopo 14 anni, pur rimanendo in Piano di rientro. Ma intanto l’“exit” è un titolo utile in una campagna elettorale, quella per il rinnovo del Consiglio regionale della Calabria.

L’annuncio è infatti arrivato a Lamezia Terme per bocca della stessa Meloni nel corso della manifestazione del centrodestra a sostegno del presidente della Regione, Roberto Occhiuto, che punta alla riconferma. La sanità, quindi, diventa strumento per il marketing elettorale e pazienza se la Calabria dopo 14 anni di commissariamento rimane impantanata in una gestione straordinaria.

Cosa dicono i dati

Verifichiamo se gli annunci della Meloni hanno un fondamento o sono “carte” da giocare per attrarre consenso. Per dimostrarlo, proviamo a ricostruire l’andamento della spesa sanitaria rifacendoci alle fonti ufficiali. I finanziamenti al Ssn sono in continua riduzione (6.8% nel 2014; 6% nel 2025; 5.6% la previsione per il 2030) e sono soggetti a un definanziamento selettivo, che grava soprattutto sulle regioni meridionali.

I conti pubblici territoriali riportano un aumento del valore assoluto della spesa sanitaria dal 2012 al 2024, a fronte tuttavia di una sua flessione nel medesimo periodo, sia in relazione all’andamento del tasso di crescita, sia in relazione alla dinamica del tasso di inflazione. Si registra la riduzione del numero di ospedali nell’ultimo decennio (circa il 15% in meno), del personale sanitario a tempo indeterminato (circa 45000 unità) e del numero di infermieri, attualmente di molto inferiore alla media europea (6.5% ogni 1000 abitanti, contro gli 8.4% dell’UE).

Si tratta dell’esito delle misure di austerità messe in atto a partire dal 2011-2012, con l’obiettivo di ridurre il rapporto fra debito pubblico e Pil mediante riduzioni della spesa pubblica. Questa linea di politica economica è, peraltro, alla base del più generale sottodimensionamento della pubblica amministrazione italiana, che occupa un numero basso di dipendenti – inferiore alla media europea - con età media sempre più avanzata. Si stima che dal 2008 al 2019 il numero di occupati nel settore pubblico italiano si è ridotto del 27.8% nel Mezzogiorno e del 18.5% nel Nord.

Le prospettive

Sulla base di questo scenario, è utile soffermarsi su due aspetti relativi a ciò che è ragionevole prevedere in merito all’andamento dei finanziamenti al Ssn.

Esistono forti preoccupazioni in merito alla sostenibilità del sistema sanitario pubblico, che, come si ricorderà, alla sua istituzione nel 1978 ricevette il plauso della prestigiosa rivista Lancet. Ciò per una duplice ragione. Innanzitutto, l’invecchiamento della popolazione comporta un aumento della domanda di cura. In secondo luogo, a seguito sia dell’approvazione del nuovo Patto di stabilità e crescita sia del programmato aumento delle spese militari, è prevedibile una contrazione ulteriore delle spese per il welfare e, dunque, per il Ssn.

Come è noto, infatti, il nuovo Patto di stabilità e crescita del 2024 – che fa seguito a quello del 1997 - prevede piani nazionali di bilancio a medio termine della durata di 4 o 7 anni. L’Italia è, fra i Paesi europei, quello che fa registrare uno dei più elevati rapporti fra debito pubblico e Pil nell’eurozona e, dunque, quello che deve impegnarsi per la maggiore riduzione annua della spesa pubblica in rapporto al Pil. A frenare la prospettata riduzione dei finanziamenti alla sanità pubblica potrebbero subentrare i fondi per questa missione previsti nel Pnrr, ma ciò al netto dei ritardi che si stanno registrando.

Un ulteriore motivo di preoccupazione riguarda la futura distribuzione regionale della spesa sanitaria, in considerazione dei possibili differenziali generati dall’autonomia differenziata. Come è stato osservato (si veda, in particolare, il Report dell’Osservatorio Gimbe del 2023), infatti, questo disegno rende possibile alle Regioni più ricche l’attivazione della contrattazione integrativa, con la conseguente possibile migrazione dei medici più competenti nelle aree più ricche del Paese.

Si può considerare, a riguardo, che esistono già rilevanti sperequazioni territoriali nella fornitura di servizi essenziali. Si consideri, a titolo esemplificativo, che la disponibilità di asili è oltre la metà al Sud rispetto al Nord del Paese, che la spesa statale per i servizi socioeducativi destinati ai bambini pugliesi ammonta a circa un sesto rispetto a quella sostenuta per i coetanei nati in Emilia-Romagna, che a Milano circa il 90% dei bambini può usufruire del tempo pieno a scuola, a fronte del solo 4% di Palermo. Il 17.1% delle scuole italiane del primo ciclo è privo di palestre e strutture sportive, con una percentuale che sale al 23.4% al Sud.

Per invertire la tendenza, occorre preliminarmente considerare che la riduzione della spesa sanitaria non ha solo effetti sulla tutela dei diritti fondamentali sanciti dalla Costituzione, ma è controproducente per l’obiettivo della crescita economica, dal momento che si associa a un aumento delle ore non lavorate e al calo della produttività del lavoro.

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