Esattamente trent’anni fa, sull’onda di una indignazione popolare che aveva raggiunto limiti di guardia, venne apportata una modifica all’art. 68 della Costituzione, eliminando l’istituto dell’autorizzazione a procedere, che i padri costituenti avevano previsto per tutelare l’autorità politica là dove l’azione della magistratura avesse deviato dai sui compiti istituzionali, perseguendo finalità politiche.

L’istituto avrebbe dovuto operare solo in casi gravi ed eccezionali. Per decenni, invece, se ne è fatto uno spudorato abuso: i nostri onorevoli (si fa per dire) hanno sistematicamente ravvisato un fumus persecutionis in ogni iniziativa della magistratura penale nei confronti di un parlamentare. Sebbene renitente, il parlamento dovette intervenire per eliminare quella prerogativa.

Evidentemente, però, nelle due Camere il fumus ristagna ancora se, con costanza degna di miglior causa, quasi ad ogni inchiesta che coinvolge un parlamentare si attinge al solito armamentario comunicativo, vagamente paranoico: “È una rivincita della magistratura sulla politica”; “è inquisito solo perché è mio figlio (o mio padre)”; “è chiaro l’intento di colpire il tal leader in un momento molto promettente del suo percorso politico”; “si tratta di un tentativo di condizionare l’esito delle prossime elezioni”; “si vuole infangare la forza politica di appartenenza dell’indagato”.

Non potendo più negare all’inquirente l’autorizzazione a procedere, se ne squalifica l’intendimento, con la peggiore delle accuse: quella di usare lo strumento penale non già per accertare fatti e per giudicare, ma per compromettere l’immagine di un politico o di un partito.

“Dolorosamente” consapevoli che in mancanza dell’originaria prerogativa costituzionale non si potrà impedire all’autorità giudiziaria di procedere, si cerca di condizionarne l’azione e, soprattutto, si sposta il focus dell’attenzione pubblica dall’accusa all’accusatore: dall’argumentum ad rem all’argumentum ad hominem, secondo una antica strategia della retorica con la quale ci si allontana dal tema della polemica contestando non l’affermazione dell’interlocutore, ma l’interlocutore stesso. Alla bisogna, quasi tutte le forze politiche vi hanno fatto ricorso. Andazzo che ormai più che l’indignazione suscita lo sbadiglio.

Separazione

Non meriterebbe commento, quindi, la recentissima ricostruzione secondo cui le vicende giudiziarie riguardanti gli onorevoli Santanchè e Delmastro – risalenti nel tempo, nate in momenti diversi e dinanzi ad autorità giudiziarie diverse – costituirebbero un coordinato tentativo di condizionare le elezioni europee del prossimo anno (sic!). Ad incuriosire in tal caso è uno degli elementi che farebbero pensare, secondo questa versione, ad un accanimento politico: il fatto, cioè, che il giudice per le indagini preliminari non abbia accolto la richiesta di archiviazione della vicenda riguardante Delmastro, indagato per rivelazione di segreto d’ufficio in relazione al caso Cospito.

È davvero singolare che le forze politiche che con più determinazione si sono espresse per l’urgente necessità della separazione delle carriere tra magistratura inquirente e magistratura giudicante, al fine di scongiurare il rischio che questa – appartenendo allo stesso ordine – si appiattisca su quella, si lamentino del fatto che un giudice non condividendo la richiesta di archiviazione del pubblico ministero gli abbia imposto di formulare l’imputazione (impregiudicato restando, ovviamente, il merito delle due determinazioni).

Insinuazioni

Una postilla, che ci auguriamo superflua: qualunque cittadino e, ovviamente, anche il politico – gpossibilmente con la misura richiesta dal ruolo ricoperto – ha il diritto di esprimere rilievi critici in ordine allo svolgimento di un procedimento penale o alla motivazione di una sentenza. Ciò che non ci si dovrebbe consentire, e che non dovrebbe mai consentirsi un rappresentante delle istituzioni, è delegittimare la funzione giurisdizionale, essendo la fiducia del popolo nella giustizia amministrata in suo nome un fattore insostituibile di coesione sociale e democratica.

Immaginiamo a questo proposito il profondo disagio del ministro Nordio – che di fronte alle severe critiche mosse dall’Associazione nazionale magistrati al suo progetto di riforma aveva addirittura parlato di violazione del principio di separazione dei poteri – nel dover ascoltare insinuazioni così pesanti, provenienti da esponenti del potere esecutivo di cui fa parte, circa un uso politico della funzione giurisdizionale.

 

© Riproduzione riservata