Il dibattito pubblico si sta giustamente concentrando sulla componente più povera del mercato del lavoro, spesso lavoratori con un basso livello di istruzione e competenze che poco sembrano rispondere alle esigenze delle imprese. Ma guardare a queste persone non deve portarci a pensare che, invece, coloro che hanno un alto titolo di studio e, almeno sulla carta, competenze più aggiornate, non vivano una situazione di difficoltà nel momento dell’incontro con il mondo del lavoro.

Nei giorni scorsi Eurostat ha infatti pubblicato dei dati particolarmente preoccupanti sul tasso di occupazione dei laureati in Europa e da questi emerge come l’Italia sia all’ultimo posto nel continente. Se infatti si considerano i laureati negli ultimi tre anni, tra i 20 e i 34 anni, la media europea di coloro che ha una occupazione è dell’82,4 per cento mentre il dato italiano si ferma al 65,2 per cento.

La Grecia, che negli ultimi anni aveva performance peggiori delle nostre, ci ha superato con il 66,1 per cento mentre sembra distante anni luce il 92,2 per cento tedesco o l’89 per cento della Svezia. Si tratta di un dato aggregato, che non rende ragione dei differenti esiti occupazionali in base alla tipologia di laurea, così come non mostra le forti differenze territoriali che caratterizzano il mercato del lavoro italiano.

Ma se consideriamo il sistema-paese nel suo complesso è chiaro che ne usciamo fortemente penalizzati e allo stesso tempo però il dato consente di fare qualche riflessione. A partire dal grande paradosso che aleggia su queste percentuali, ossia il fatto che l’Italia è allo stesso tempo all’ultimo posto per l’occupazione dei laureati e agli ultimi posti per numero di laureati stessi.

Quindi neanche un titolo di studio più raro che in altri paesi riesce a scalfire la strutturale debolezza dell’occupazione in Italia, unitamente all’elevata percentuale di lavoro irregolare, e questo in parte può spiegare l’anomalia in Europa. Allo stesso tempo però è difficile e riduttivo immaginare che sia tutta colpa dei giovani perché sappiamo che, come osservato ormai da decenni, una parte della struttura imprenditoriale italiana non necessita delle competenze dei laureati, a causa dei bassi livelli di innovazione e della forte presenza di lavori routinari.

Questo fa sì che la laurea, pur portando in generale a tassi di occupazione maggiori rispetto agli altri titoli di studio, non sia una garanzia di occupazione, anzi a volte risulta un titolo di studio quasi ingombrante. E così si spiega la presenza massiccia di lavoratori sovra-qualificati che si trovano a svolgere mansioni inferiori rispetto alle competenze di cui il mercato ha bisogno.

La domanda di tecnici nel settore manifatturiero e la domanda, fortissima, di lavoratori nei servizi alla persona, ad esempio, se non viene soddisfatta da una offerta di pari livello verrà soddisfatta da chi, piuttosto che rimanere disoccupato, si convincerà a fare un lavoro al di sotto delle sue capacità. E chi non accetta questo rischia spesso di rimanere ai margini del mercato del lavoro.

Sullo sfondo resta l’urgenza di rinnovare i percorsi universitari, non per inclinarli verso le esigenze del mercato, ma per metterli maggiormente in dialogo con la realtà anche fuori dalle aule, sia per le materie umanistiche (troppo spesso chiuse in teche di cristallo) che per quelle scientifiche. Occorre partire anche da qui per ridurre quel mismatch di cui tanto si parla, troppo spesso semplificandone le cause e facendone oggetto di sterili contrapposizioni ideologiche, sulla pelle dei giovani.

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